Regia di George Clooney vedi scheda film
Alla sua terza prova registica, Clooney si cimenta nella commedia romantica rifacendosi all’esempio illustre, e inarrivabile, di Hawks (o, più recentemente, di Blake Edwards) che miscelava con sapienza slapstick e battibecco sofisticato, guerra dei sessi con antagonismo tra ruolo maschile e femminile, rivalità galante e gioco dell’assurdo. Il lavoro di Clooney sembra più un omaggio a quel cinema che un serio tentativo di efficace recupero del modello, in un film troppo lungo (114 minuti) per essere seriamente comico, esageratamente basato su faccette e smorfie per scolpire personaggi credibili ed eccessivamente digressivo sul piano sportivo per risultare davvero interessato all’elemento romantico.
Ed è in effetti probabile che la trama amorosa sia solo un piacevole paravento per raccontare quel singolare momento di passaggio del football americano dal dilettantismo al professionismo. Questa progressiva destrutturazione di uno sport in spettacolo di massa, facilmente veicolabile attraverso la radio e la nascente televisione, è molto più verosimilmente il nucleo reale del film. L’argomento risulta così in linea con le pellicole precedenti del regista, tutte concentrate sullo spettacolo televisivo e le sue modalità di costruzione e fruizione, differentemente declinato a seconda del contesto socio-politico e dallo stile di volta in volta scelto. Se Confessioni di una mente pericolosa sfruttava un andamento sperimentale allineandosi alla paranoia allucinatoria del protagonista, la serietà compassata di Good Night and Good Luck si adeguava perfettamente alla caratura giornalistica e cronachistica del personaggio principale.
Allo stesso modo, In amore niente regole si modella sul personaggio interpretato dallo stesso Clooney, attempato sportivo alla ricerca di una dignità professionale per gli atleti di una disciplina in fase di transizione, mentre il football va avviandosi ad essere uno spettacolo disciplinato e consapevole, per presto perdere quell’aura di ingenuo passatempo privo di mezzi economici. Nel raccontare quei momenti critici di trasformazione e trasformismo, Clooney narra uno dei numerosi riti di passaggio americani verso la società dello spettacolo, disciplinata, magniloquente ed irrimediabilmente votata al profitto. È il resoconto, ancora un volta, della perdita dell’innocenza di un mondo destinato a crescere e trasformarsi in altro, soggetto a meccanismi di sfruttamento e di promozione di ineluttabile efficacia, a forme di comunicazione e manipolazione collettiva.
Ancora una volta, Clooney narra l’America più profonda nella sua espressione apparentemente più superficiale, lo spettacolo, la comunicazione di massa che, nei suoi pregi e difetti, ha formato l’anima e la storia del Paese con meccanismi qui ancora in nuce ma ben visibili sullo sfondo. Non siamo all’inizio di una vicenda amorosa tra due individui bensì, anche e soprattutto, all’alba di un mondo nuovo, plurale e consapevole, ferocemente attento alle prime e delicate fasi di auto-definizione, alla nascita di una nazione radicata nello spettacolo. La love story finisce con l’essere un espediente di convenienza, la ricerca della comicità il veicolo di un alleggerimento dei toni per la definizione di un ritratto volutamente soltanto accennato, il ricordo nostalgico di un tempo ormai passato da guardare con divertita ed incredula malinconia.
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