Regia di George Clooney vedi scheda film
“La festa dello sbadiglio”. Sono le parole usate, a proposito, durante una partita di football, da qualcuno dei giornalisti non ancora abituati allo sport che, di lì a poco, avrebbe sbancato in tutto il mondo. Ma potrebbero essere queste le stesse parole utili, per commentare il film.
Nonostante lo sport e la leggerezza di un Clooney, tra Mr Bean e i peggiori fratelli Cohen, la sregolatezza con cui il bello di Hollywood, ormai più di casa da noi che in America, tenta di far sorridere risulta obsoleta e lagnosa.
Bellissime le scenografie e la magnifica fotografia, che ben ci fanno addentrare negli Stati Uniti del 1925, a soli quattro anni dall’anno in cui quella parte dell’America avrebbe fatto sentire il suo peso sul mondo intero, in seguito al disastroso crack economico. Jimmy 'Dodge' Connelly, leggenda del football americano, è il proprietario di una squadra che non ha ancora collezionato vittorie. Deciso a risollevare le sorti della sua formazione, Dodge convince Carter Rutherford, promessa del football, ai tempi del college ed eroe della I Guerra Mondiale, a giocare per lui. Tuttavia, se in campo i due stanno dalla stessa parte, fuori Connelly e Rutherford diventano acerrimi rivali per conquistare il cuore dell’unica bella giornalista, Lexie Littleton.
E’ da subito evidente che Clooney costruisca la sua regia strizzando l’occhio al necessariamente falso, forse perché convinto che ormai la commedia sofisticata ha perso mordente, per cui non riesce neanche a risvegliare gli americani (e non solo) dal loro torpore. Ma sappiamo pure che all’attore del Martini party piacciono le storie ambientate nel passato americano, per cui ci piace pensare che questo film vuole essere, semplicemente, un amore dichiarato alle commedie romantiche hollywoodiane della Golden Age. Nient’altro. Si tratta di anni in cui gli attori (quelli con la ‘a’ maiuscola: Gable, Grant, Hepburn, Hopkins, Tracy, ecc.) anche con la più insipiente commedia, riuscivano a trasmettere quella sana e giusta ironia, utili per prendere poi le cose sul serio. Quindi non si può fare il paragone, veramente esagerato, fra il bel Clooney e i Grant, i Gable, ecc., che oltre alla bellezza, lasciavano il segno, grazie alle storie di cui si facevano interpreti. Come si potrebbe mettere sullo stesso piano (come la critica ‘in’ ha fatto!) una Hepburn, Spencer Tracy, con le smorfiette irritanti della Zellweger? Inoltre, dove sono le regole del titolo italiano?
Di questa terza regia di Clooney, lontanissima anche dalle peggiori di Cukor e Hawks, ricorderemo, ma sforzandoci, essenzialmente la fotografia seppiata, oltre al tributo alla comicità del cinema muto, utilizzando proprio le partite di football, le gag esilaranti, le scazzottate, ben descritti, anche perché accompagnati dalla musica dell’epoca. Nonostante tutto ciò, la noia, già dopo la prima mezzo’ora di film, ha il sopravvento. Non basta la caffeina della tanta Coca Cola, la cui pubblicità nel film è dichiarata (questo dal progressista Clooney non ce lo aspettavamo!), a farci restare fino alla fine del film, tra l’altro per vedere quello squallido e insipido bacio fra la bella del diario di Bridget Johnson (peggiorata da allora) e l’inatteso ospite del Martini party.
Giancarlo Visitilli
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