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Quantum of Solace

Regia di Marc Forster vedi scheda film

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La recensione su Quantum of Solace

di lussemburgo
6 stelle

La novità più significativa e interessante del nuovo Bond è la strutturazione seriale degli episodi, inaugurata dal finale a cliffhanger di Casino Royale ripreso nell’antefatto presigla del nuovo film. Non è più la semplice ricomparsa di personaggi noti a dare la continuità ai film della rinnovata saga dell’agente segreto britannico bensì il rimando narrativo da film in film, come i tasselli di una serie televisiva coordinata in un ritratto organico. Se manca a questo capitolo firmato da Forster la coerenza presente nel primo film di Campbell, costruito sulla fisicità del nuovo interprete e sulla lenta costruzione dei topoi bondiani, appare più evidente la strutturazione geopolitica di fondo, lo spostamento da tematiche inerenti o derivanti dalla guerra fredda, ormai desuete, a nuovi scenari politico-finanziari in cui non manca una precisa accusa al cinismo dei governi occidentali, all’opportunismo - soprattutto americano -, alla guerra per il petrolio e per le riserve idriche, segnale di un pianeta allo stremo. L’impianto ideologico del film è quasi progressista, per la simpatia manifesta verso le popolazioni oppresse, triturate dagli ingranaggi degli interessi economici. Se il film sembra schierarsi, Bond rimane compresso nella necessità di vendetta derivata dall’oltraggio subito nel primo film e si agita animato dalla rabbia. La stessa serializzazione spinta impressa alla saga, sebbene interessante, fa del film un capitolo aggiuntivo, derivato dal primo e preparatorio del prossimo, una tappa intermedia sulla strada della reificazione dell’incarnazione bondiana che schiaccia Quantum o Solace, con le sue tematiche impegnate, sullo sfondo di un furia devastatrice, gravata anche dalla scarsa incisività dell’antagonista e dalla mancanza di spessore della bond-girl di turno.
Definito il personaggio nel primo capitolo, schizzato il panorama dello sfondo in questo secondo opus, Bond si rinnova complessivamente, con un debito evidente verso i nuovi film d’azione, i succedanei del personaggio che hanno rinnovato gli stilemi del cinema di spionaggio, soprattutto guardando alla trilogia di Jason Bourne, ripetendone la schizofrenia frenetica delle inquadrature. Ma la scabra crudezza delle immagini di Casino Royale procedeva in parallelo all’opacità del personaggio, confuso sulla propria identità e sulla genesi delle stesse capacità omicide. Bond è un personaggio più compatto, un agente al servizio di Sua Maestà e non un cane sciolto ribelle. La geometria accennata dalla composizione delle inquadrature e dalla tessitura fotografica di Quantum of Solace si stempera fino ad annullarsi nella velocità del montaggio, vanificando ogni ipotesi di strutturazione delle scene, spesso troppo veloci e non così fisicamente coinvolgenti e prolungate come nel film precedente.
Bond prosegue comunque nella via della definizione del personaggio in accordo agli stilemi noti, ma è ancora refrattario a trovare un cocktail identificativo e personale, a concedersi il lusso di uno stile riconoscibile. Craig riesce di nuovo a conferirgli un’animalità selvaggia, felino nei movimenti e rabbioso nei contrasti, quasi muto per l’economia degli scambi verbali. È un cinico vendicativo, animato dalla volontà di rivalsa sulla morte dell’amata Vesper, ossessionato dalla ricerca del colpevole e delle reali intenzioni della donna. Ha avuto le sue risposte, ma l’interrogatorio rimane fuori campo e non ha ottenuto soddisfazione demandata, ancora una volta, al prossimo capitolo, secondo la nuova continuità. E il film si riserva il lusso di non spiegare nemmeno l’enigmatico titolo, se non con vaghi rimandi ad un minerale prezioso dall’utilizzo ancora sconosciuto, secondo la sempre fertile tradizione del macguffin.
Haggis, autore preminente della sceneggiatura e abitatuo sia alla narrazione seriale televisiva (The Donnellys, ad esempio, o la serialità implicita di Crash, poi sviluppata per la televisione), alla combinazione di diverse linee narrative e all’impegno critico nei riguardi della propria amministrazione (Nella valle di Elah) trasferisce interessi e competenze alla nuova stagione dei Bond, cercando di elevare verso uno spettacolo adulto la macchietta spionistica. Forse, stavolta, manca un regista di analoga capacità dietro la macchina da presa, con un’idea precisa del personaggio e dell’episodio all’interno della ridefinizione del personaggio come aveva fatto Campbell. L’ingerenza della seconda unità, deputata alle scene d’azione, prevale, qui, sulla regia, la cui unica funzione sembra essere la cura degli scarni dialoghi nei tête-à-tête che si insinuano isolati come frammenti persi nella cinetica dell’azione o cercare una firma d’autore nel variare il ritmo dell’azione combinandolo alle note della Tosca, annullando per un breve momento il sonoro diegetico. Craig avrebbe diritto a scene più compiute per adeguare la fisicità alla personalità di Bond, per ritrarre un agente tormentato senza limitarsi al solo cipiglio corrucciato. Ma per il momento l’agente segreto continua nella corsa ad una risposta e a soddisfare la propria sete di vendetta. E il film si limita a seguirlo, mentre lo spettatore spera in una prossima tappa maggiormente compiuta.
 

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