Regia di Andrew Stanton vedi scheda film
Ve la ricordate la mitologica prima mezz’ora di “2001: Odissea nello spazio”? Come si può dimenticare l’esaltazione inquieta del silenzio che sopprime le troppe parole urlate fino a questo momento, parole che non fuoriescono più per non deturpare anche con la lingua un mondo già devastato? Non l’hanno dimenticato quei geniacci della Pixar. La lancinante dolenza di questa brulicante ed ammalata epoca attraversa le nostre vene come acqua non potabile, avvelena le esistenze e ci porta a voler setacciare nuovi mondi per non conoscere ancor’oltre il peggio che abbiamo intorno. Un mondo, un’epoca, dove lo spazio è diventato la meta più avanguardistica dei viaggi di svagata esplorazione. La colonizzazione è veicolata per far occupare gli ultimi baluardi di serenità naturalistica alla società peggiore che possa rappresentarci, quella fetta sociale simboleggiata dalla obesa bulimia del potere pratico e non teorico, della tecnologia al servizio dell’azione immediata e spicciola e non enfatizzata. Ma, diamine, chi è rimasto a sorvegliare la terra? O meglio, quel che resta della terra, ormai ridotta ad una discarica di lerci pezzi di scarto, il paradiso infermale di un archeologo del post-moderno alla ricerca di qualcosa da recuperare. Ad abitare ancora il pianeta ormai divenuto metastasi universale è un robot un po’ sfigato e un po’ smarrito. Gli occhi di Wall-E sono lampi di emozioni lancinanti, dolci, accoglienti. Cercano la presenza di una complementarità che lo renda almeno un po’ più solo. C’è un piccolo amichetto, un insetto salterino, ma non può valere quanto un proprio simile. E nel cielo sporco di infamia evaporata come nuvole di sporco fumo addensato per impedire al resto dell’universo di scorgere quel che resto del mondo, gli occhi troppo umani di Wall E trovano negli occhi statici da cerbiatta di malandrina ultramodernità di Eve, la cui anima è imprigionata in un candido corpo futurista, la ragione di esistenza. L’istinto amoroso si scontra con la ragione: seguirla, sempre e dovunque, o restare a sorvegliare i quattro rottami che ancora li fanno compagnia? Meno male che c’è Barbra Streisand a consigliarli di andare avanti: da “Hello Dolly!” ad “Hello Wall E!” il passo è breve, anche a livello di onomatopee. Il Nuovomondo è il macrocosmo dell’obesità esistenziale, la colonia inconsapevolmente disperata emigrata dalla Terra quasi in tempo – chissà perché questa nuova terra di frontiera sia facilmente riconducibile alle inquietudini di un’America mai così smarrita in sé stessa, dove gli uomini in sovrappeso (l’americano medio) parla col computer perché ha rinunciato ad intrecciare un legame umano. C’è un grande capo che parla, un po’ ricollegandosi alla tradizione letteraria del “Mago di Oz”, con cui può vantare qualche analogia nella interpretazione della macchina fasulla e squilibrata del potere. E ci sono agghiaccianti conversazioni tra il Capitano e il suo computer di fiducia: quei vari “DEFINISCI: TERRA… DEFINISCI: MARE” sono i più terribili gesti cinematografici ecologisti ed ambientalisti. Da qui è difficile scappare. Bisogna scegliere se vivere o sopravvivere. La danza nell’ignoto spazio profondo per fuggire e richiamarsi a sentimento è toccante: dove poter trovare il giusto posto nel mondo dove dare sfogo alle proprie esigenze amorose? E sempre quegli occhi, che implorano l’amore necessario per continuare a dare senso ad un’esistenza a ben vedere priva di qualunque significato. Che alla fine si inondano di lieta serenità, certamente velata della preoccupazione inevitabile dell’incertezza del domani: l’Apocalisse lenta e tremenda non possiamo schivarla, ma forse in due ci si può convivere. “Wall E” è il film più filosoficamente disperato della Pixar, addirittura una delle più importanti opere artistiche (non solo circoscritte nei terreni cinematografici) realizzate nell’ultimo decennio per la trasparenza dell’azione, la limpidezza del gesto, l’efficacia del messaggio. Poesia pura che innalza il silenzio come terapia per lenire il dolore e la paura, tentativo di esprimere di salvar(si) per salvare il salvabile, magari un germoglio spuntante dalla terra come segno di un ultimo barlume di fiducia. Il futuro sarà duro, compagni, stiamo distruggendo a poco a poco ciò che ci circonda (dunque noi stessi) con l’ebbra noncuranza di chi non pensa al domani. Wall E è l’ultimo guardiano dell’ecatombe, il sopravvissuto a cui affidare il destino del mondo. Quel che resta, almeno. Poetico, filosofico (di che sponda? Io direi mistica, ma non ne sarei così sicuro), apocalittico: bisognava aspettare un cartoon per assistere ad uno spettacolo di tale bellezza visiva ed intellettuale. Il miglior film dell’anno?
Magica.
Voto: 9.
Commovente, poetica, filosofica, esistenziale, apocalittica. Magica.
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