Regia di Salvatore Mereu vedi scheda film
C’è la Sardegna di Banditi a Orgosolo (gli strapiombi, i cavalli e anche un attore: Serafino Spiggia) e quella di Padre Padrone (la solitudine e l’angoscia dell’infanzia), ci sono le facce e il pudore dei sentimenti di Olmi (soprattutto negli occhi di un’attrice incantevole: la cilena Manuela Martelli) e il guardia e ladri meccanico e rassegnato di Salvatore Giuliano con i carabinieri che corrono e la cartuccera che ballonzola, ma la prima, violenta, qualità di questo secondo film di Mereu (messosi in luce con Ballo a tre passi), è la stoffa antica del linguaggio. Dal romanzo di uno dei volti più carismatici del giornalismo degli anni 70 (Giuseppe Fiori), tredici anni di un giovane pastore, dal 1937 al 1950, che prima perde il padre al confino durante il fascismo e poi passa al brigantaggio con l’avvento della Repubblica, raccontati con un cinema lontano dalla fiction quanto De Andrè lo è da Briatore. Una lunga galleria di quadri intitolati al protagonista, Sonetàula (che, letteralmente, indica il rumore della legna), al nonno (il citato Spiggia), ai ragazzini che badano alle bestie e ai banditi come lui o agli umili operai dopo la guerra: come nei romanzi di Verga, non c’è sventura che non possa essere narrata dal brusio smozzicato da lunghi silenzi intorno a un fuoco. Un film, insomma, fatto di toni bruni e di muschio, del riflesso azzurrino del basalto sotto la luna, solido e nobile come una quercia, che ricorda anche l’Anghelopoulos di O Megalexandros (sensazione acuita dalla musicalità sibilante del sardo, sottotitolato, che ricorda il greco): ascolta lo sconquasso della modernità dall’interno di una civiltà dove ogni boato, remoto, è ancora coperto dal belare del gregge, dal frastuono leggero del camino, dal latrato dei cani nella notte.
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