Regia di Eran Kolirin vedi scheda film
La banda della polizia di Alessandria (quella egiziana) si perde nel Sinai e finisce in un paese dimenticato dal proprio Dio. Casermoni costruiti sul nulla, in cui non c’è nulla nascondono un bar su una piazza deserta abitata da Dina, la proprietaria e due avventori che si sospetta essere più che assidui, stanziali. Proprio da loro gli otto musicisti troveranno alloggio e disponibilità umana prima di riprendere il loro viaggio. Il film è corto, carino, favola esile sulla tolleranza e le diversità con inserti leggeri e divertenti, quasi surreali a sottolineare l’estraneità dei musicisti capitati per un banale errore di comprensione della lingua, in un posto alieno. E alieni sembrano nelle loro marziali divise da poliziotti, tenuti in riga con stanca propensione al comando del disilluso colonnello, mentre trascinano i loro trolley neri nel piatto paesaggio della città. La diffidenza dei locali piano piano si attenua e le culture si mischiano annullando tutte le differenze, domina tutta la semplice vicenda una voglia di vita e d’amore che trascende qualsiasi pregiudizio, che sboccia anche nel terreno più arido e nei posti più impensati, tra persone completamente diverse tra loro. Dina, nel suo vestito rosso, nei lineamenti marcati e i capelli corvini è carne e sangue ritagliata nell’anonimo grigio città che vede nel comandante della banda il gentiluomo che ha sempre atteso, quando sognava sui film arabi di Omar Sharif. Teneri e goffi i musicisti affrontano la notte e i suoi abitanti con disarmante umanità, in siparietti di rarefatto umorismo e acida commedia. Minimale nella messa in scena, spesso composta da inquadrature immobili sui personaggi colti in pieno contrasto con il paesaggio circostante, ricorda un Kaurismaki mediorientale, assolutamente meno disilluso poiché tutto si rimette, o quasi, al suo posto e il mondo continua a girare per il verso conosciuto. Forse un po’ meglio. Piccolo film fatto con idee precise e un certo gusto per l’ironia e la sottile irriverenza che trae spunto dalle differenze culturali esistenti tra Egiziani e Israeliani, gestito tutto sulle interpretazioni degli attori, maschere di grande espressività sulle quali spicca l’intensa e fisica Dina di Ronit Elkabetz e il rigido colonnello che vive per la musica, Sasson Gabai.
Alla fine si esce leggeri e divertiti, consapevoli di non aver assistito ad un capolavoro ma sicuramente ad una bella sorpresa, uno di quei gioiellini sparsi qui e là dall’anemica logica distributiva che privilegia i prodotti senz’anima mortificando queste semplici storie più profonde di come appaiono, ben scritte, ben recitate e ben dirette, semi di cultura che fecondano continuamente l’humus del buon cinema.
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