Regia di Eran Kolirin vedi scheda film
Un piccolo film che smuove grandi pensieri, un gioiellino minimale che fa della propria lieve consistenza la sua principale forza, come un leggero refolo di vento che ti arriva addosso al momento giusto a procurarti un benessere di cui sentivi il bisogno; un autentico micro-capolavoro. Il film, di produzione israeliana, arriva da noi dopo aver raccolto consensi e premi in mezza Europa ed è in sostanza un incontro di civiltà, sullo sfondo di una desolata terra di nessuno che somiglia ad un deserto. Ospiti forestieri ed indigeni, tutti sono persone che si sono in qualche modo perse e tutti si attaccano a qualcosa per ritrovare un'identità smarrita. Questa fanfara egiziana che sfoggia divise sgargianti ed è carica di regole e tradizioni solenni, vede tutto ciò infrangersi contro il muro di una dimensione avulsa, dove i contorni si confondono, le certezze perdono forma, tutto diviene possibile. Nulla è come avrebbe dovuto essere: il paese raggiunto è quello sbagliato, il fantomatico "istituto di cultura araba" neanche a parlarne, e nessuno in quella landa desolata aveva mai visto prima un arabo, men che meno munito di strumento musicale. Il senso di smarrimento accomuna tutte le anime che popolano questo piccolo film, attraversandole in forma di lieve malinconia. Non è facile adesso, dopo la visione, tirare delle conclusioni e mettere nero su bianco parole definitive: perchè certe immagini suggeriscono pensieri talvolta inafferrabili, impossibili da mettere in fila secondo una logica. E dunque il film bisogna vederlo per capire certe situazioni e ciò che esse provocano nella mente e nel cuore di chi guarda. Sono frasi banali, lo so, ma necessarie soprattutto per un film lieve e minimale come "La banda". Al di là delle parole inutili, un particolare balza evidente: che musulmani ed ebrei, nel corso di un giorno e una notte (lo spazio temporale abbracciato dal film) imparano a conoscersi, cadono (o si riducono) barriere e diffidenze, tutti sono accomunati da qualcosa che può essere un senso di colpa, la ricerca di un'identità, il desiderio di serenità, il fare i conti col proprio passato, la scoperta di un nuovo amore, la passione per la musica, la capacità di perdonare. Tutto questo documentato da una cinepresa che non ha fretta, che con calma si sofferma sui volti e le espressioni degli esseri umani colti nella loro fragile vulnerabilità, magari nascosta dietro una pomposa divisa azzurra. E spesso questo senso di fragilità si incrocia con un benefico senso dell'umorismo e del paradosso, conferendo un tocco di originale seduzione alle immagini. Un cast di ottimi attori (ovviamente tutti volti sconosciuti qui da noi) esprime con brillante efficacia tutte le sfumature di una straripante umanità, di voglia di comunicare, di uscire dalle proprie gabbie mentali (il severo direttore d'orchestra che alla fine sente qualche cedimento del suo ingessato rigore, la barista col suo bisogno di flirtare in realtà specchio di solitudine). Alla fine, quando sorgerà di nuovo il sole, quello che resta è una sensazione struggente di malinconia. Il messaggio del film è insieme banale ma prezioso, perchè è qualcosa che è sempre bello veder ribadito in un'opera artistica: le guerre, i conflitti economici o politici, possono disegnare confini o imporre divisioni di razza o di religione, ma i sentimenti degli uomini, quelli sono UNIVERSALI e, anzi, è esaltante abbattere queste barriere proprio per il gusto di penetrare la corazza della rigidità altrui, per scoprirne con soddisfazione gli elementi sentimentali comuni ai propri. In questo senso è una di quelle tipiche opere che -pur senza un approccio esplicito- racchiudono anche un messaggio politico. La notte di questo villaggio sperduto rende possibili incontri apparentemente bizzarri ma tutti carichi di promesse e di umanità. Mi riferisco al giovane che "piantona" un telefono pubblico nella fremente attesa di una telefonata della sua amata, oppure ai timidi ed esilaranti approcci amorosi di un ragazzo molto imbranato. Ma il fulcro della pellicola è l'analisi costante dell'andamento del rapporto fra la barista e il direttore d'orchestra, il lento modificarsi dei rispettivi atteggiamenti man mano che che lo scambio umano e psicologico fra i due personaggi progredisce. E' interessante notare la reazione guardinga e vigile dell'uomo di fronte alla carnalità femminile che la donna esibisce con fierezza quasi oltraggiosa: ne pare perfino spaventato, anche se in effetti poi la donna nasconde in realtà solitudine e bisogno di comunicare ed amare. Il debutto nel lungometraggio da parte del giovane israeliano Eran Kolirin è dunque largamente positivo, anche se il merito va ripartito con un azzeccatissimo cast, in cui spiccano i due protagonisti: lui è Sasson Galai che pare a Tel Aviv fosse già una star conclamata, ma a me ha colpito molto di piu' la personalità fortissima della sorprendente Ronit Elkabetz, attrice dotata di una fisicità straordinaria accompagnata ad un bel viso mobilissimo. Una di quelle attrici talmente brave che a questo punto il mio timore è che la scopra Hollywood e se la porti via.
E purtroppo devo chiudere con una nota negativa, che pare andare in direzione opposta rispetto al senso della pellicola. A quanto mi risulta il film è stato vietato nei Paesi Arabi (neanche possedesse chissà quale carica eversiva...bah!). Che tristezza.
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