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Tutta la vita davanti

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Tutta la vita davanti

di scapigliato
8 stelle

Se il mondo della radio in “Il Mattino ha l’Oro in Bocca” era un paese dei balocchi serio e difficile per un Pinocchio fragile, qui il mondo del precariato call center è un paese dei balocchi colorato e divertente per un Pinocchio tosto, con due palle tante sotto. Questo nuovo Pinocchio è Marta, interpretata dalla fresca Isabella Ragonese, neolaureata di filosofia che tace la sua laurea, con tanto di abbraccio accademico con i vegliardi dinosauri, pur di trovare lavoro. E lo trova in un call center, una delle più recenti frontiere del precariato, dell’economia mordi e fuggi, del mito della flessibilità e quant’altro. Questo mondo del lavoro è strutturato secondo rapporti di potere e di plagio, quasi inibizione, che oggi nella realtà passano inosservati per i più, che credono erroneamente nell’abbaglio del berlusconismo. Quest’ultimo è l’obiettivo principale, taciuto ma non impensabile, dello sguardo civile con cui Parlo Virzì ha voluto raccontare di nuovo il mondo del lavoro di questo millennio a dieci anni da “Ovosodo”. Un mondo dove predomina l’arroganza del profitto, lo schiavismo dei risultati e della competizione; un mondo dove più appari, e più conti. Non è importante chi sei, il tuo nome è solo usato eufemisticamente per palesare un finto rapporto di confidenza, che si sgretola appena i numeri non vanno più d’accordo. É importante solo cosa sei, e come lo mostri e come lo vendi. Ecco i curatori dell’immagine, con i loro nuovi brand inventati in qualche brunch; ecco i dealer, i team menager, i cosi e i cosini. Titoli, etichette, post-it gialli appiccicati alla meno peggio qui e là. Non resta più nulla dell’Uomo e della sua coscenza, del suo valore e della sua etica. Nasce così un vero e proprio limbo dantesco popolato da mostri, da ignoranti, censori, moralisti, stupidità da reality e così via. Tutti a non capire come lo specchietto per le allodole abbia davvero funzione e bene, tanto da averli schiavizzati e resi innoqui. Così innoqui che non ti avvicini manco al sindacato perchè rischi il licenziamento. Questi padroni...
Ma il film di Virzì non stupisce solo per il contenuto, ma per la forma e le idee visive con cui ne parla. Attraverso il cast geniale che ha radunato intorno a sè, il film precipità ogni suo personaggio nella futilità della presentabilità/vendibilità dell’Italia di oggi. La protagonista è una neofilosofa, ma arriva da una università baronale, magari anche valida, ma rinsecchita su se stessa, per poi arrivare in un call center, che come tante aziende del nuovo businness-way italiano sono vere e proprie sette sataniche, popolate da fanatici ingovernabili, invasati dal guadagno, dal capo firmato, dalla bella auto e dai gadget multimilionari. Intorno a lei una fauna di degni rappresentanti dell’ossessione/compulsione dell’arrivismo economico: una capotelefonista che è l’essenza stesso del vuoto: una Ferilli da paura, un po’ matrigna di Biancaneve un po’ fata turchina cambiata di segno. É un personaggio solare e bello come il sole, con un’attrice-mattatrice in formissima, ma è anche un personaggio che vive solo delle espressioni esterne del sè: non ha nulla dentro, solo finzione. La Daniela della Ferilli è semplicemente convinta di essere protagonista di un reality suo, tutto interno: esiste solo se guardata dal di fuori. Con lei, il Boss idolatrato da tutti i vigorosi giovani impotenti che vedono nell’arrivismo aziendale la rivalsa per la propria impotenza nella vita. É interpretato da Massimo Ghini, tra l’altro anche con un certo mestiere. Porta con sè l’arroganza di chi, in posizione di dominio, si permette di scherzare, fare battute, e credersi il padre padrone che consiglia solo in bene i suoi figliocci. Seguono le centraliniste caciare, stupide oche più attente ai risvolti dei reality che dei loro diritti del lavoro, tra cui spicca per bravura e bellezza Micaela Ramazzotti, il cui nudo è già un cult. Bella, tenera e fragile, è la bandiera dell’immaturità di questo folle paese, che però non perde la sua innocenza, nella speranza di una possibilità di direzione no-menageriale, no-aziendale. Poi c’è Lucio2, ovvero il grande Elio Germano, che con il suo personaggio dà vita alla fine stessa dell’abbaglio berlusconiano. Il suo Lucio2 è il capolinea. É lo stop, brusco e violento, là dove crolla tutto e non hai mani per raccogliere nulla. É l’ultima stazione di una via crucis addobbata a festa dove la concezione aziendale della vita e la sua filosofia menageriale sbattono il muso contro la Verità. La Verità è un’altra: è quella vecchia che ti invita a mangiare il pollo nel cortile povero e conciato di casa sua. Altro che lustrini, altro che divise da giovani rampanti.
Virzì aiuta tutta questa amara riflessione grazie ad una posizione partecipata della macchina da presa. Bei primi piani, bei colori, belle luci tagliate con lirismo, una set decoretion a metà tra avvenirismo e pochismo provinciale, perchè l’Italia, che volete?, resta provinciale, resta una provincia del progresso europeo. I toni, le cupezze improvvise, così come le schiarite inaspettate (si ride pure e bene grazie a Valerio Mastandrea che fa il sindacalista un po’ retorico, ma è anche l’unico un po’ più puro degli altri), tuuto questo che il regista semina qua e là, va nella direzione della denuncia di una deriva culturale che questo paese non si merita. Una deriva che scompare di botto quando la piccola e straordinaria interprete della tenera Lara chiude il film con l’intenzione di fare da grande “filosofia”. Touché...

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