Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
In "Colpo d'Occhio" c'è un po' di Dario Argento e un po' di Alfred Hitchcock, ma Sergio Rubini stavolta fa piena cilecca. Il film infatti non solo riprende clichè e moduli narrativi triti e ritriti, cosa per altro che con il genere si fa eccome, ma sbaglia totalmente la forma e l'intuizione. La storia procede senza ritmo, sfasata da giustapposizioni fin troppo telefonate, montate come da manuale televisivo. Fosse stato un film anti-narrativo, sarebbe stato concepito e realizzato in modo diverso. Quindi va da sé che la puerilità dell'edizione finale, pur non voluta, sia attribuibile solo alle mancanze del regista. La recitazione è completamente deludente. Rubini e Scamarcio inseguono una sovraccaricazione dei loro personaggi che è stucchevole. Ci si resta malissimo. Non c'è dialogo che non sia sussurrato, con quell'inutile pathos e quel continuo fiato pesante che non becca nulla con il film e con la sua idea ansiogena e claustrofobica che ogni tanto persegue. Scamarcio poi, è proprio fuori luogo. Un attore bravo e di talento, perché lo è, qui sembra riprendere quell'approccio attoriale che già in "La Freccia Nera" lo aveva dequalificato senza riserve. Qui Scamarcio è un artista "forse" maledetto che carica così tanto il suo personaggio molto psicolabile che risulta soltanto poco credibile. Ci sono scene arrabattate da mettere vergogna, come quella della tintura dei capelli versata sul tappeto che porta i due amanti ad un primo attacco di isterismo; oppure come le fin troppe ed inutili scene di lite, che nascono sempre da situazioni inverosimili tanto da credere che gli autori non sapevano proprio che fare quel giorno in fase di sceneggiatura. Anche il confronto finale tra il critico d'arte interpretato da Rubini e il suo bel giovinetto Scamarcio è di un'infantilità di testo e grammatica cinematografica da rintanare la testa nel guscio, se l'avessimo, per l'imbarazzo. Tant'è che viene il dubbio che Rubini, come succede nel film in cui innalza il suo favorito per poi gettarlo nella merda, abbia voluto Scamarcio in quel ruolo per tagliargli le gambe in carriera. Ovvio che non è così, ma guardando il film il dubbio viene. Si salva solo la bella e brava Vittoria Puccini, anche lei molto sopra le righe, ma con una presenza scenica talmente azzeccata che lei sì che sembra davvero essere uscita da un film di Alfred Hitchock. Magari non è Grace Kelly, ma il modello può essere quello. Anche Flavio Parenti, l'amico di Scamarcio, il vero artista, ha dimostrato più mestiere del resto del reparto. Ma non bastano due attori in forma, soprattutto se in ruoli di contorno, per rialzare le sorti di un film. Anche perché di scene davvero belle ce n'è, a mio modestissimo parere, soltanto una: quella nella piazza del paesello toscano dove ci sono delle riprese e una coreografia di scena molto curate e precise, ovvero il momento più hitchcockiano del film. Il resto, ciccia. Ed è un peccato, perché Scamarcio è un bravo attore, ostaggio del divismo che comunque cerca di evitare il meglio possibile, e anche Rubini è un autore-attore da sempre stimato. Ma stavolta entrambi scivolano sull'approccio da "metodo" che hanno dato ai loro personaggi, risultano goffi, per niente credibili, anzi irritanti per la pochezza di mestiere. Piuttosto che impegnarsi a cercare dentro di sé le emozioni da liberare durante la performance, come metodo vuole, secondo la propria proverbiale autoimmedesimazione, avrebbero dovuto individuare quegli elementi esterni con cui avrebbero veicolato la propria interiorità. Non dico che il celebre metodo dell'Actors Studio sia una fuffa, ma non può valere per tutti, e personalmente, io che non lo perseguo, sono anche abbastanza scettico sull'autoimmedesimazione e l'autosuggestione del metodo stesso. Anche il tema della maledizione dell'arte e dell'artista, che forse Rubini voleva essere metadiscorsivo, è semplicemente appiccicato alla meno peggio su di una sceneggiatura già di suo imbarazzante come se fosse uno di quei post-it gialli con scritte poche e semplici parole da ricordare.
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