Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
Prendi l’arte e mettila da parte. Nonostante di arte Rubini ne abbia tanta da spendere e spandere. L’inizio del film è programmatico, con il regista-attore che invita a “pensarla come un’opera”, per cui “il pubblico parteciperà ad un solenne spettacolo”. In realtà, basta un solo colpo d’occhio al film. La prima mezz’ora: con due scopate, inframmezzate da dialogo “alla Federico Moccia”, e alla fine ritrovarsi con una lunga puntata di Il commissario Rex.
Il poster del film richiama la scomposizione geometrica di tre pezzi di vita. Quelle di un critico affermato, di una giovane allieva e di uno scultore squattrinato, ma di grande talento, divorato dall’ambizione di riconoscimenti. Il loro è un continuo appuntamento fra inganni e sospetti, lusinghe e carognate, tra noir e melò. Entrambi, i tre protagonisti del film, hanno lo sguardo fisso su un unico punto, quasi fosse l’obiettivo e il senso del loro contendersi. Il nulla, o meglio, la vacuità del niente.
Nonostante i voli pindarici del regista Rubini, si cade subito in terra e si comprende, fin troppo presto (motivo per il quale il film è anche noioso), che il gioco si consuma continuamente fra la vittima e il suo carnefice e il loro ribaltamento, l’uno nelle vesti dell’altro. Lo spettatore non trova neanche il piacere di provarsi a chiedere. Tutto è scontato, fino all’inverosimile, tanto che non sono pochi i minuti in cui si ha l’impressione di stare a guardare roba da piccolo schermo. Vuoi per la recitazione del ‘mocciano’ Riccardo Scamarcio (ultimamente era migliorato. Con Rubini è tornato ai suoi esordi), nonostante più volte durante il film reciti la parte di sé stesso, il divo, ma soprattutto per quella della ‘donna di Rivombrosa’, il film non funziona soprattutto per la fragile sceneggiatura. Il mondo ‘pariolino’, evidentemente assai vicino allo star-sistem dei cineasti italiani, non fa altro che primeggiare nei film anche di registi sui quali avevamo scommesso: è mai possibile che nessuno più vive in case “normali” e che tutti gli uomini e le donne del cinema italiano abitano in sontuose regge, lussureggianti fino al ribrezzo per chi, fra gli spettatori, è costretto a fare i conti con sé stesso e la propria precarietà? Quanti sono i professori d’arte in Italia, come Sgarbi e quello verosimile a questi che descrive Rubini nel suo film, capaci di essere degli ‘onassis’?
Alla fine, il colpo d’occhio lo merita soltanto l’elegante e curatissima fotografia di Vladan Radovic (Rosso come il cielo), capace di soleggiare e, almeno, contrastare la noiosa dipartita Scamarcio/Rubini. Perché, fino alla fine tutto appare molto inadeguato, dalle scene di nudo della Puccini, che pur volendosi richiamare alla Venere di Botticelli (!), appaiono del tutto inutili all’interno del film, fino a “Insolita” delle Vibrazioni, nei titoli di coda, che non “c’azzecca ‘na mazza” con la storia del film.
Ma più consona a tutto questo pamphlet, la stessa battuta che Rubini pronuncia nel film: “Certe volte bisogna tornare indietro per andare avanti”. L’avesse pensata prima di girare il film, ci avrebbe addirittura fatto rimpiangere i suoi film d’esordio.
Giancarlo Visitilli
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