Regia di Louis Nero vedi scheda film
Il luogo comune galoppa a cavallo di una scrittura elegante e di una sofisticata fotografia. Sono chiacchiere d’autore, affidate a note icone del cinema contemporaneo, vividamente spennellate dei colori pittorici di Matisse, Van Gogh, Cézanne, Gauguin. Louis Nero parla delle consuete difficoltà incontrate da un giovane cineasta nella ricerca di finanziamenti per il suo film. Il discorso, se pur trito e ritrito, è impostato su un registro raffinatamente altisonante, per lo più scontato, ma, a tratti, inaspettatamente cosparso di filosofica arguzia e delicata poesia. Purtroppo l’estro quasi sempre latita, nascondendosi dietro una banalità che sa di popolaresca semplificazione; solo ogni tanto si impenna pronunciando una riflessione originale o piazzando qualche frase discretamente indovinata. Bisognerebbe che, lungo l’intero percorso, la fantasia e il coraggio accompagnassero il protagonista nelle sue classiche vicissitudini da genio incompreso, da artista alternativo, rappresentante di un genere intellettuale per il quale non esiste mercato. Solo con la giusta dose di inventiva la storia potrebbe evitare di cadere di continuo nella solita tiritera della gente che vuole solo vedere scene di sesso, dei produttori che pretendono di cambiare il copione da cima a fondo, della crisi economica che colpisce prima di tutto la cultura, dei registi costretti, per sopravvivere, a vendersi a poco prezzo per girare spot pubblicitari. La frustrazione si traduce in una polemica un po’ qualunquista diretta contro il potere tangibile della classe dominante e dei condizionamenti mediatici, e contro quello inafferrabile, ma non meno ubiquitario, della dilagante assenza di pensiero. La battaglia, a dire il vero, sembra combattuta ad armi pari, almeno per quanto riguarda la profondità espressa dalle due parti in gioco: entrambe si divertono – con una variabile miscela di cinismo e patetismo – a giocare con l’ovvio, senza mai, neppure per un attimo, sollevare la testa dal lacrimevole pasto del mala tempora currunt. Tra l’insulso vagheggiamento di un glorioso passato ed il sogno di un futuro impossibile il presente si ritrova vuoto, deserto come un quadro in cui le suggestioni siano state fatte fuori da un rigido ermetismo di maniera. L’estetica verseggiante di quest’opera poggia su un nulla che rimane tale, uno squallido niente relegato dietro le quinte, da dove non riesce neppure a farci pervenire il suo gelido ed abissale respiro. La creatività fa fatica ad emergere, non appena fa capolino interviene subito l’ordinarietà a ricacciarla indietro, come per evitare divagazioni che distraggano il pubblico dal tema principale: quella rabbia di matrice autobiografica che non può permettersi troppa astrazione. Deve rimanere concreta ed attaccata alla terra, benché infiorettata, qua e là, dei necessari vezzi che distinguono i personaggi sui generis e potenzialmente ribelli.
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