Regia di Tim Burton vedi scheda film
Sorprendente Grand Guignol targato Burton. Gotico e plumbeo, cantato da gole in procinto di recidersi come fiori malati, il ritorno alle atmosfere burtoniane giova al regista la cui fama l’ha reso onorevole di trasformarsi in aggettivo, capace in questo modo di sfogare tutta la sua furia visionaria sui pupazzi di carne ormai cresciuti e mutati da teneri freak bambini ostrica a vittoriane escrescenze del male in cerca di soddisfazione. Storia semplice di vendetta, di carne tritata composta in pasticci dati in pasto agli ignari abitanti londinesi, di cannibalismo e sangue a fiotti, unica nota di colore, zampillante come la vita in una scenografia fumosa e crepuscolare. Sweeney Todd, direttamente da un musical di Stephen Sondheim, è il barbiere interpretato da Johnny Depp, tornato dopo 15 anni di illegale detenzione a nutrire i suoi argentei rasoi delle gole di chi l’aveva privato della sua vita, della moglie e della figlia. Già che c’è, la mattanza viene allargata a tutta la società, in un delirio di sangue e follia che non risparmia nessuno. Ad aiutarlo la dolce e terribile Mrs Lovett/Helena Bonham Carter, lacera figurina a metà tra la strega e la sua vittima di incantesimo, innamorata e solidale del suo bel barbiere. Personaggi che sono molto rappresentativi dello stile Burton, ma con una nota diversa, più macabra e irrisolta. Se nei precedenti film il dark o il freak era comunque un’espressione grottesca che nascondeva un animo positivo contrapposto alla normalità demente del mondo, in Sweeney Todd questa caratteristica non esiste. I personaggi sono emarginati, sono grotteschi e sono profondamente cattivi, senza redenzione alcuna, senza raggio di luce che ne illumini la coscienza e li salvi: questa volta il diverso non è migliore, semplicemente perché non è affatto diverso.
Splendide le scene del sogno di felicità di Mrs. Lovett con il suo amato Sweeney collocati in ambientazioni solari, stereotipate, in cui il loro essere diverso risalta come una sorta di Famiglia Addams depressa in gita a Disneyland.
Depp e Burton per il personaggio del barbiere pescano nell’immaginario costruito nei film precedenti, Sweeney Todd con la capigliatura selvaggia e i rasoi in mano è assimilabile al fratello gemello e meno fortunato di Edward Mani di Forbice, paranoico e accecato di vendetta, irrimediabilmente schifato dalla società corrotta e ipocrita che disumanizzandolo lo ha trasformato a sua immagine e somiglianza. In questo senso il “buon” Sweeney Todd è empaticamente molto più vicino al Pinguino di Batman: il Ritorno, personaggi buttati nelle fogne della società che risorgono completamente devastati nell’anima.
E’ una sorpresa in effetti, un’opera come questa, un musical horror spiazzante e cruento in cui alle parti recitate seguono le scene cantate (finalmente per una lungimiranza distributiva lasciati in originale e sottotitolati) dagli attori, scene che provengono direttamente dall’opera teatrale e della quale mantengono intatto tutto il loro carisma. I duetti Depp-Carter sono una delizia, i testi ironici e acuti, i comprimari assolutamente all’altezza (Sacha Baron Cohen che fa un coloratissimo dandy-barbiere italo inglese) e tutto scivola via sul sangue versato con la leggerezza musicale in equilibrio e contrasto con l’ambientazione ossessivamente cupa e le immancabili trovate tipiche dell’immaginario onirico burtoniano. La sedia meccanica, il gigantesco tritacarne in cui finiscono i malcapitati clienti del barbiere, la fornace, tutto l’armamentario horror gotico e fuligginoso viene messo in risalto dai lucenti rasoi d’argento che balenano in mano al barbiere a completamento del proprio braccio, il sangue a rivoli che erompe di un rosso iperrealista, facce bianche e trucco pesante, una regia agile e virtuosa dove il tratteggio delle personalità dei personaggi è dipinto con caratteristiche espressioniste, indelebili. Tutto questo corrisponde in pieno all’iconografia pop dell’idea di cinema di Burton, visivamente accecante, accumulativo e gioioso qui impreziosito dalla partitura musicale e canora che lo rende oggetto unico e irripetibile. Giustissimo Oscar a Dante Ferretti per le scenografie cupe e incombenti che l’altrettanto ottima fotografia riesce a rendere in tutte le sue sfumature di grigi e di neri, sottintendendo il profondo precipitare morale di una società persa, nera e corrotta. Una gioia per gli occhi.
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