Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Takashi Miike chiude il conto con la prima stagione di Masters of Horror, o meglio, non lo chiude per niente visto che il suo è stato l’unico episodio ad essere censurato e non trasmesso dalla televisione americana, il fatto è senza dubbio curioso considerando la natura della serie e il tipo di pubblico a cui si rivolge, ma evidentemente Miike è andato oltre.
Per giudicare Imprint e per meglio inquadrarlo bisogna capire proprio cosa sia questo “oltre”, quali sono i limiti che sono stati superati, perché tanto scandalo per una storia che in fondo di horror esplicito ha ben poco a parte la famosa scena della tortura (sadica, truce, tremenda) e qualche effetto sanguinolento?
Evidentemente l’essenza del lavoro di Miike è molto più profonda.
Certo c’è la questione dei feti morti, corpicini senza vita lasciati vagare nelle acque di un fiume, sono sequenze che non lasciano indifferenti e che toccano delle corde molto sensibili, ma è appunto su questi binari che si muove il regista nipponico, suggerendo e a volte mostrando un orrore più interno che esterno; nel tentativo non tanto di spaventare lo spettatore quanto piuttosto di turbarlo nel profondo, portandolo in territori oscuri che di solito si preferisce evitare.
Da questo punto di vista Imprint è un vero pugno nello stomaco, devastante nel miscelare bellezza espositiva (quasi poetica) e calcolata violenza, buttando nel calderone stupri, torture, incesti, devianze mentali e fisiche, il tutto senza filtri o scorciatoie ma anzi andando dritto al punto.
La storia vede protagonista un giornalista americano interpretato da Billy Drago, lo yankee è alla disperata ricerca della donna che ama e che in passato ha abbandonato al suo destino (quello della prostituta), giunto su un isola misteriosa adibita a bordello si intrattiene con una donna dal volto sfigurato che le racconta la triste fine della sua amata.
Imprint è senza ombra di dubbio l’episodio tecnicamente più riuscito della prima stagione (di poco ma lo metto sopra anche a Carpenter), messa in scena scandita da tempi volutamente lenti, fotografia semplicemente grandiosa, Miike quasi ipnotizza lo spettatore tra immagini evocative e improvvise impennate di ritmo, poi si può discutere il contenuto o l’eventuale sintonia con lo stesso, si può certamente criticare una certa insistenza compiaciuta nel mostrare la tortura (autocitando Audition), ma sulla forma e sulla tecnica tanto di cappello.
Finale ambiguo e spiazzante, nessun appiglio è concesso allo spettatore, che consapevole o meno deve sottostare alle regole stabilite e imposte da Miike, il viaggio non sarà piacevole ma di certo non lascia indifferenti.
Voto: 8
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