Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Totale libertà creativa e nessun taglio imposto dalla produzione: cogliendo queste premesse (uguali per tutti) come un invito ad osare, Takashi Miike concepisce Imprint, il suo contributo alla (prima) serie Masters of Horror, un'opera cattivissima e profondamente disturbante che, nel contesto di una messinscena estremamente violenta, tratta temi come l'aborto e l'incesto facendosi beffe del politically correct: un po' troppo per il pubblico U.S.A., tanto da costringere Showtime, la tv via cavo che aveva commissionato il film, a rimangiarsi la parola data cancellandone la programmazione.
L'azione si svolge su un'isola non meglio specificata del Giappone, un'isola inospitale in cui vivono solo le puttane e i loro protettori e in cui di notte girano solo banditi. Christopher, un giornalista statunitense, vi si reca alla ricerca di Komomo, la donna che ama ma di cui da tempo ha perso le tracce e che si augura di ritrovare nel bordello del luogo. Ma lei lì non c'è, e lui, costretto a pernottarvi, lo fa in compagnia di una prostituta dal volto deforme che asserisce di averla conosciuta ed inizia a raccontargli la propria triste vita unitamente ai tragici eventi che hanno funestato quella di Komomo.
Il passo scelto dal regista è lento e solenne, e ben si sposa con l'atmosfera macabra e malata che domina la pellicola sin dall'inquietante scena iniziale in cui, mentre il giornalista viene condotto in barca sull'isola, il cadavere di una donna incinta affiora dall'acqua tra il disinteresse e l'ilarità generale: promettente assaggio dell'orrore che verrà. Quella cui assistiamo è l'inesorabile discesa negli inferi del protagonista, un'indagine apparentemente disperata e priva di sbocchi che si trasforma progressivamente nel peggiore degli incubi senza che niente e nessuno possa intervenire per interrompere il corso degli eventi e salvare il (non) salvabile: la verità che lui agogna supplica ed implora viene distillata in dosi crescenti attraverso una sequela di flashback che svelano di volta in volta particolari sempre più agghiaccianti, prospettando un quadro d'assieme di terrificante impatto emotivo. L'umanità che Miike mostra è un campionario di mostri senza regole e senza morale, a partire dai due protagonisti, entrambi meno innocenti di quanto le apparenze possano far pensare, passando per la madre di lei, un'ostetrica specializzata nel far sparire feti, o per il monaco buddista con la faccia da nazista che parla di salvezza delle anime e traffica con arazzi imbevuti di sangue umano.
Perfettamente a suo agio nel raccontare storie estreme, Miike non arretra davanti a nulla, filma il filmabile e anche qualcosa di più (la scena della tortura e quelle con i feti che scorrono nel fiume sono difficili da dimenticare) ma senza perdere mai di vista la sostanza né un grammo di eleganza formale. E schiva, senza alcuna fatica apparente, il rischio di ripetitività insito nella stessa formula scelta, consegnando da subito alla prostituta freak la chiave per risolvere l'enigma, lasciando gli spettatori (oltre che il protagonista) in balia del lento incedere dei suoi racconti, delle sue variazioni sul tema, e dell'insostenibile violenza delle immagini, senza che gli uni o le altre appaiano mai gratuiti o superflui, e filtrando il tutto attraverso una tavolozza di colori vividi in cui tra verdi brillanti e gialli ocra la parte del leone spetta all'onnipresente rosso denso del sangue.
Quando la classe si sposa col coraggio.
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