Regia di José Padilha vedi scheda film
La visita del Papa a Rio de Janeiro costringe i governanti della città a ripulire la favela che si affaccia sulla dimora del Santo Padre. Un impresa che rasenta l’impossibile per l’efficacia dell’azione malavitosa, organizzata e crudele come quella di Gomorra, ma anche per il contrasto di una polizia endemicamente corrotta. Una resa a priori, che le istituzioni sanciscono con l’impiego della cosiddetta “Tropa de elite”, corpo para militare con licenza di uccidere ed una giurisdizione che si sovrappone alle forze regolari: di nero vestiti ed equipaggiati come Rambo, i soldati si muovono all’unisono sotto la guida del loro capitano, un tipo ferocemente determinato ma qui in crisi di coscienza per la nascita del figlio, e per questo ansioso di sganciarsi da un incarico che diventa sempre piu’ pericoloso. Il compito istituzionale e le istanze private si incrociano con un susseguirsi serrato di azione e spunto sociologico, in un quadro generale di violenza in cui bene e male si fondono in un macabro balletto che non risparmia niente e nessuno: dall’idealismo dei due poliziotti, co protagonisti del film e contraltare al cinismo del loro mentore, alla studentessa benestante e progressista, schiacciata da un ideologia che le impedisce di intuire i pericoli dell’ umanitarismo a tutti i costi, alla stessa favela, erma bifronte, capace di ammaliare con il colore delle sue notti ma anche di uccidere tra l’inconsapevole accondiscendenza dei suoi abitanti . La scelta di aprire con una scena che si colloca cronologicamente a metà del film catapulta lo spettatore nel vortice dell’azione ed insieme cristallizza il punto di non ritorno dopo il quale moralità e politicamente corretto lasciano il posto ad una resa dei conti fatta di istinto e polvere da sparo, di squarci di luce ed improvvise oscurità,ed in cui la dignità dell’uomo è scavalcata dall’istinto di sopravvivenza. Cadenzato sui ritmi di una colonna sonora che si fa beffa della morte e sembra richiamare nostalgie guerrafondaie, il film ci mostra immagini ipertrofiche che raccontano di uno stato emozionale sempre al limite e di uno sguardo che potrebbe sembrare presuntuoso per l’ipercinetismo della mdp ed invece è il risultato di una rappresentazione del dolore che vuole essere anche una provocazione verso il terzomondismo di facciata che riempie i mezzi di informazione e che è diventato un modo come un altro per rimuovere fastidiosi rimorsi di coscienza. Guardare la favela attraverso gli occhi del potere era una scelta a rischio, per la carica di machismo ed esaltazione connaturata nello spirito di chi si sporca le mani, ma il regista la compie in maniera consapevole, lontano da visioni maniche e senza proporre soluzioni, ma puntando tutto sull’impatto del messaggio. La sguardo, seppur carico di connotazioni che richiamano i peggiori spettri del totalitarismo ( le divise nere ed il teschio assunto come fregio, l’addestramento delle reclute e l’onnipotenza dei comandanti) non è mai fino a se stesso ma teso a definire i limiti di questa follia collettiva. Ne deriva uno stile dinamico che mischia documento e finzione, con la telecamera che rincorre gli eventi e talvolta li precede mentre la pellicola gioca con i colori alterandone la consistenza. Si arriva alla fine con il cuore in gola, attaccati ed insieme respinti da una storia che ti entra nella pelle e li rimane per ricordarti che quello che hai visto esiste e continua ad accadere.
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