Regia di Antonello Grimaldi vedi scheda film
Caos calmo, il romanzo di Sandro Veronesi (Premio Strega 2006), era un miracolo di leggerezza e gravosità allo stesso tempo ed affrontava, con ironia ma senza rinunciare a momenti di cruda intensità, l’incapacità di elaborare un lutto. Caos calmo, il film di Antonello Grimaldi, prodotto dal ritrovato Domenico Procacci, è abbastanza fedele al suo originale (nonostante il trasloco dell’ambientazione da Milano a Roma, qualche necessaria approssimazione nel disegno dei personaggi e un’imprevista nevicata finale). Eppure pur essendo un solido film di buona fattura, lascia un attimo perplessi.
La storia è quella del dirigente televisivo Pietro Palladini, a cui, mentre salva una sconosciuta che sta per annegare in mare aperto, muore la moglie (nel libro era la compagna, non ancora sposata). Non comprendendo quel che sta provando, o quel che non sta provando (o non riesce a provare?), decide di fermarsi di fronte alla scuola della figlia durante l’orario scolastico. Seduto su quella panchina (nel romanzo era l’auto, ma per necessità comprensibili si è optato per l’apertura del parco), sfilano davanti ai suoi occhi conoscenti e parenti e amici che sembrano “usarlo” solo come confessionale laico en plein air (quanti abbracci!, sembra chiedersi la bella ragazza che passa ogni giorno col suo cagnone), e mediante il quale Pietro entra ancora di più in confusione: non sta soffrendo, non riesce o non sa soffrire, e teme per quella figlia, fin troppo tranquilla e pacata. E quando lei spiega al padre che “i topi non avevano nipoti”, ossia i palindromi, ossia la reversibilità delle cose, Pietro si accorge che quello che gli è capitato è un dolore irreversibile, non si può leggere al contrario.
Ciò che più intrigava del romanzo di Veronesi era la prodigiosa commistione di generi inseriti in un contesto drammatico e luttuoso: non è una tragedia, quanto un dramma contemporaneo in cui si incontrano situazioni da commedia e finanche grottesche (specie nel sotto-film della fusione con il gruppo del potentissimo Steiner, anche per merito del cattolico personaggio di un irresistibile Silvio Orlando che immagina il processo di unione con un simbolismo religioso), altre più serie e inquiete, altre ancora disperate. È anche un film disperato, Caos calmo, e sta tutto in quell’ossimoro del titolo, lo scombussolamento interiore e silenzioso che non riesce ad esplodere, il lutto che non si decide ad uscire dalla ristretta morsa dell’anima. Analogamente, il film non riesce costantemente ad esplodere, tanto non rimane in superficie quanto nemmeno sa piantare le sue radici in un terreno stabile.
Chi l’ha letta come una metafora della situazione sociale della contemporaneità ha evidentemente preso una cantonata, perché le intenzioni dello scrittore erano quelle di approfondire l’ego malato del protagonista (così come ne La forza del passato, altro grande romanzo cento volte migliore della sua trasposizione in celluloide). Tra l’altro, in merito al precedente libro di Veronesi, il personaggio principale, Gianni Orzan, ricompare qui come pen-friend della defunta moglie di Pietro, quasi a sottolineare come quel romanzo non sia stato totalmente espiato dall’esperienza letteraria di Veronesi. Tornando al film, ben girato senza invadenza né tracotanza da Antonello Grimaldi, pur, ripetiamolo, non essendo un capolavoro, si registra come un’opera intimista e, almeno nelle intenzioni, profonda. Che poi i risultati non siano eccellenti è un altro discorso.
Fatto sta che il film, pur portatore di qualche lentezza nella prima parte, la cui visione è anche fiaccata dai colori freddi della bella fotografia di Alessandro Pesci, si riprende certamente nella seconda parte. Alla sceneggiatura di Nanni Moretti, Francesco Piccolo e Laura Paolucci si possono muovere ben poche critiche, considerando la difficoltà del trasportare un romanzo “immobile” sul grande schermo. Così come al corale cast, azzeccato e intelligente, nel quale, tra tanti cammei (Charles Berling, Antonella Attili, Roberto Nobile, Tatiana Lepore, Cloris Brosca e altri), spiccano l’insolito e sorprendente Alessandro Gassman nelle vesti dell’apparentemente frivolo Carlo. fratello stilista di Pietro; la sensuale ed annoiata Isabella Ferrari come influente cioccolattaia Eleonora Simoncina; l’ottima Valeria Golino nei panni dell’inquietissima Marta, insoddisfatta cognata del protagonista.
E, ovviamente, il motore della storia, ossia Nanni Moretti, che si ricuce su misura Pietro Palladini, personaggio che sin dal primo momento desiderò interpretare, attingendo al remoto repertorio di Michele Apicella e Giovanni de La stanza del figlio. Qui Nanni è fantastico nell’arte di sottrarre e non di aggiungere inutili vezzosità al protagonista, in quel parco e pacato non recitare che sta alla base della sua esperienza attoriale: con umiltà, si rimette nelle mani del regista, ma affiora talvolta una certa complicità nel lavoro di direttore, quasi una deformazione personale. Ma Nanni attore non è una sorpresa bensì una conferma ed è disarmante la semplicità della sua recitazione, il modo in cui getta le battute (“Io non sto seduto qui tutto il giorno. Mi muovo”).
Si è molto parlato della rovente scena di sesso tra Nanni e la Ferrari, tra Pietro ed Eleonora: al di là di quel che si vede, è funzionale per capire l’inquietudine dell’uomo, un amplesso nel quale s’incontrano carnale desiderio e disperata solitudine. Assolutamente cult l’incontro con il mostro sacro Roman Polanski, il potente e temutissimo Steiner: la scelta del silenzio per questa scena è forse anche una scelta stilistica, come se ci fosse un certo pudore nel non valicare le porte dell’auto così capitale nel romanzo. Corredano l’opera le ispirate musiche di Paolo Buonvino e la splendida canzone di Ivano Fossati che accompagna gli innevati titoli di coda, L’amore trasparente.
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