Regia di Jon Favreau vedi scheda film
Uomini in lega
Se Superman, l’uomo d’acciaio, può essere considerato il nonno di tutti i supereroi (sia cartacei che cinematografici), l’uomo di ferro (quello d’oro è Goldfinger e quello di bronzo un misto fra Trump, Berlusconi e Renzi…) può esserne senz’altro considerato lo zio: il primo film realizzato del MCU (ma il terzo da considerare per una visione cronologica) è infatti del 2008; il progetto di una (lunga) serie di film a tema, legati da una labile (seppur sufficientemente credibile) trama orizzontale pescata dal linguaggio fumettistico/seriale anch’esso all’epoca in fase montante, era nel suo stato embrionale, bisognoso di un lancio esplosivo e ragionato. E quale migliore “decollo” di un progetto (apparentemente) “titanico” che affidare il ruolo da protagonista ad un redivivo ed istrionico Robert Downey Jr., ripresosi dopo i suoi problemi di droga, e pronto a riprendere la scena internazionale ?
L’ingombrante presenza del tarantolato protagonista può essere a mio avviso considerata però sia un punto di forza che uno svantaggio: l’eccessiva brillantezza – talmente posticciamente ricercata da apparire (da subito) pericolosamente vuota - di un profluvio di dialoghi di alleggerimento, declamati alla velocita della luce dai protagonisti (soprattutto da Downey Jr.) che, invece di intervallare con istanze “slapstick” i momenti action, non fanno altro che palesare, nella quasi totalità dei casi, la pochezza della scrittura degli stessi ( spesso sciorinati dagli attori in contemporanea, con spiacevole effetto cacofonico [quanto una puntata media di un talk show politico di Retequattro qualsiasi]).
La trama di contro appare sufficientemente ponderata: si costruisce coerentemente l’antefatto (la prigionia in Afghanistan) e si definiscono (con spruzzate di eccessiva pedanteria) i ruoli: l’eroe, l’antagonista “in disguise” e i comprimari (la precisa Mrs. Pepper/Gwyneth Paltrow ed il guerrafondaio Col. Rhodes /Terrence Howard). Mentre il vero cattivo viene definito in (positiva) sottrazione (almeno fino allo scontro finale) da un ossimòrico Jeff Bridges (sufficientemente in parte).
Di base, risulta comunque soggettivamente arduo appassionarsi alle ambasce esistenziali ed alle paturnie di un personaggio – archetipo del miliardario eternamente in fase (post) post-adolescenziale – di base misogino e antipatico; ma, al netto delle tare (anche sociologiche) di un prodotto (indubbiamente ed orgogliosamente) “in serie” – sulla cui professionalità “standard” della confezione (resa registica, effetti speciali e montaggio di prammatica) appare arduo argomentare – ci si diverte tuttavia con malcelata (e colpevole) moderazione.
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