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Kaos

Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Kaos

di laulilla
9 stelle

Da poco ci ha lasciati Paolo Taviani. Nato a San Miniato (8/11/1931), come il più giovane e amatissimo fratello Vittorio (1929 – 2018), col quale raggiunse Roma dalla Toscana negli anni ’50. Insieme costituirono una delle coppie di registi-sceneggiatori più affiatate del nostro cinema.

Vorrei ricordarlo dedicando una recensione a Kaos, il lungometraggio girato con Vittorio nel 1984: 157 minuti per 4 episodi – tratti dalle Novelle per un anno di Pirandello – seguiti da un suggestivo Epilogo.
Paolo diresse, da solo, invece, il bellissimo Leonora Addio, (2022), ricco di riferimenti a Kaos, dedicandolo a Vittorio, a cui lo doveva, poiché insieme a lui l’aveva ideato, e anche concluso.

  

I quattro episodi della pellicola sono collegati da alcuni temi e, visivamente, dal volo scampanellante di un corvo che, posandosi, ci guida fra le contraddizioni dolci e amare degli abitanti della terra di Sicilia, soffermandosi sul gusto teatrale che li anima da sempre e che, ben prima di Pirandello, avevano trovato cantori e rapsodi: pupari e grandi scrittori che i Taviani in questa pellicola ampiamente citano e poeticamente rielaborano

 

Il primo episodio –  L’altro figlio – è la storia di una donna rimasta sola e povera dopo la morte del marito, brutalmente ucciso e quindi vilipeso, quando la sua testa decapitata era diventata il macabro trastullo di un gruppo di delinquenti, scarcerati dopo la vittoriosa Spedizione dei Mille da un Garibaldi-Cunebardo che aveva portato la libertà, e, purtroppo, liberato gli infami.

Fra loro, il violentatore della madre (Margarita Lozano è l’interprete della tragica vicenda) di un ragazzo, costretto a inventarsi un futuro emigrando verso gli Stati Uniti in cerca di lavoro.
Le era rimasto un secondo figlio, nato dalla violenza reiterata dell’assassino dell’amato marito, così somigliante a quel padre brutale da costituire per lei una quotidiana fonte di dolore e per lui, innocente e senza colpa, una quotidiana tragedia…

Alcuni aspetti di quest’episodio vennero richiamati, quando i Taviani raccontarono la drammatica sorte di una famiglia armena in La masseria delle allodole (2007), terribile film sugli innocenti uccisi, perseguitati e costretti ad emigrare, reinventandosi un futuro possibile, ma non facile, in terre lontane…

 

Il tema dell’emigrazione è presente anche nell’Epilogo del film e assume la duplice connotazione dell’esilio “dorato” di un uomo famoso, lo stesso Pirandello (Omero Antonutti), che ascoltando il richiamo della madre defunta (Regina Bianchi), ritorna all’antica magione e rievoca con lei i giorni dell’esilio del nonno, perseguitato dai Borboni dopo i fallimenti rivoluzionari seguiti al 1848.

La bella tartana che avrebbe dovuto portare la famiglia a Malta, fu temporaneamente costretta a fermarsi all’Isola della pomice dove le condizioni di bonaccia e la bellezza abbagliante e bianchissima del luogo sembravano invitare i bambini e poi anche le fanciulle a rinfrescarsi nelle acque limpidissime del mare, liberandosi di abiti signorili, e di ingombranti crinoline.

Scene di bellezza straordinaria e centro emotivo dell’intero film, l’ultima parte si accompagna all’aria mozartiana famosa: L’ho perduta, me meschina da Le nozze di Figaro che – come il canto delle Sirene – diventa il leitmotiv associato al ricordo favoloso del viaggio della madre adolescente …

 

 

 

 

 

Mal di luna
È il secondo episodio del film: tra superstizione e e amara ironia si svolge la storia di un  matrimonio problematico.
Una sposina  (Enrica Maria Modugno) è terrorizzata dai terribili comportamenti del marito (Claudio Bigagli), che, nelle notti di luna piena cade in deliquio e diventa aggressivo e, forse,  pericoloso per se e per gli altri.
Aveva confessato pubblicamente, incoraggiato dalla suocera, le ragioni della malattia, silente per la maggior parte dei mesi.

Quella suocera pettegola e astuta, avrebbe trovato il modo per far accettare il giovane marito alla figlia, grazie alla presenza complice di Saro, (Massimo Bonetti), innamorato di lei e vecchio amico del marito che la luna faceva temporaneamente impazzire.

Finale sorprendente, intriso di umanissima compassione e di generosa pietà; di inattesa disponibilità all’ascolto, all’accudimento e alla condivisione della sofferenza…


La giara 
È il terzo episodio, liberamente tratto dalla celebre novella “Ciaula scopre la luna”, nel quale si fronteggiano non solo due grandi attori -considerati comici (dimostrano, in realtà di essere interpreti versatili e di cavarsela benissimo anche in ruoli diversi e non volgari) - ma due diverse mentalità: quella dello spietato rentier, schiavista e sfruttatore persino del lavoro dei bambini: Don Lollò (Ciccio Ingrassia) – nel quale riecheggiano alcune caratteristiche del verghiano Mazzarò – e quella dell’artigiano perfezionista, orgoglioso delle proprie conoscenze e della tecnica perfetta che gli ha dato fama e ricchezza, nella Sicilia dei contrasti e dei misteri: Zi’ Dima (Franco Franchi).
Il raccolto di olive, molto ricco in quell’anno, aveva reso insufficienti i recipienti per la loro conservazione; per questo era arrivata una giara bellissima e molto grande, il cui maestoso aspetto troneggiava ora su un piccolo piedistallo, in attesa di essere riempita. Per dispetto, o per caso, un incidente durante la notte aveva fatto cadere la giara che si era frantumata…


Prevedibili le escandescenze di don Lollò; prevedibile l’arrivo di Zì Dima fornito del mastice speciale che lo aveva reso famoso. Egli non si aspettava la diffidenza di Don Lollò, che al mastice voleva aggiungere i punti, sconciando l’aspetto della giara e offendendone il lavoro  di valoroso artigiano.

Dopo un inutile ed esilarante colloquio con l’avvocato, Don Lollò era tornato a tarda sera; Zì Dima aveva cominciato il suo lavoro dentro la giara (i punti, ahimè) dalla quale, per la potenza del solo mastice, non poteva più uscire…

La bianca luna piena, mostrandosi in tutta la sua magica bellezza, sembrava invitare i servi a danzare attorno alla giara per accompagnare il canto delle donne col battere ritmico delle mani.
La reazione rabbiosa e grottesca di Don Lollò ne aveva evidenziato l’inadeguatezza, alquanto ridicola, mentre Zì Dima se ne andava da trionfatore.

 

Qualche breve considerazione su 

Requiem

ovvero sull’episodio aggiunto nel DVD e presente anche su Raiplay.


In qualche misura, Requiem riprende il tema del contrasto fra i latifondisti, che vivono di rendita in città e gli affittavoli che sulle alture coltivano, allevano animali da cortile, si prendono cura degli armenti e degli ovini.
L’antica sottomissione alle pretese padronali aveva da tempo mostrato la sua impraticabilità: nel momento doloroso della morte i vecchi contadini ammalati rivendicano una parte della terra sacra del cimitero e ottengono, nonostante i divieti e le minacce del vecchio proprietario e del prefetto schierato al suo servizio, la solidarietà dei carabinieri che non hanno il coraggio di lasciare insepolto chi muore lungo la strada o nello stesso cimitero nel quale pretendono rispetto e spazio. 

 

I Taviani raccontano, come sempre, senza fretta, lasciando emergere le incertezze e le contraddizioni dei personaggi; le loro paure e le speranze senza illusioni. La bella musica di Nicola Piovani costituisce il potentissimo filo conduttore che, più del corvo, ci guida lungo un percorso di conoscenza dello spirito profondo delle novelle pirandelliane.



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