Regia di Frank Darabont vedi scheda film
Incubo “lovecraftiano” calato nella realtà provinciale americana, luoghi normali in cui accadono cose spaventose. Tipo le lussureggianti montagne del Maine, come da sempre il pigro Stephen King ama ambientare le sue storie, un po’ per non sforzarsi di inventare nuove location per sistemare i suoi incubi, un po’ perché, cuore di padre, i suoi figli a lui piace sempre averli intorno. The Mist è un racconto tradotto sullo schermo dal solidale Frank Darabont, specializzato nella trasposizione di drammi carcerari targati King, uno dei pochi ad essere riuscito a rendere interessanti gli scritti senza banalizzarli. “Le ali della libertà” e “Il miglio verde” ne sono un esempio, gli altri sono Kubrick e Rob Reiner rispettivamente con Shining e Misery. La storia è semplice: dopo una furiosa tempesta una piccola cittadina viene invasa da una fitta nebbia al cui interno si muove qualcosa di sconosciuto e orrendo. Un gruppo di cittadini, tra cui David Drayton (Thomas Jane), disegnatore di poster cinematografici ( all’inizio campeggia sul muro il manifesto de “La Cosa” di Carpenter, del quale The Mist è debitore) e il figlioletto Billy sono costretti a rinchiudersi all’interno di un supermercato cercando di sopravvivere il più possibile. La tematica horror è quella più sfruttata in campo cinematografico, l’assedio tanto caro a Carpenter e a Romero è ripreso senza innovazione alcuna mentre le creature scaturite da il solito, sconsiderato, bizzarro esperimento militare che ha aperto un varco dimensionale proprio lì, nella bucolica quiete montana, sono mutuate dall’immaginario del solitario di providence, l’ H.P. Lovecraft del “From Beyond”, l’altrove innominabile vomitante semidei tonti e crudeli. Resi però goffi e pupazzosi da un design e da una computer grafica tutto sommato convenzionale. Come al solito, tutto regge finchè il mostro non si palesa, finchè l’idea dell’orrore nascosto non resta imbrigliato nella rete delle paure ancestrali sfidando la dura e pura razionalità umana. Qui il mostro si palesa quasi subito: tentacoli, insettoni, pterodattili, ragni e ragnoni che conservano i corpi a mò di dispensa per tempi magri o come incubazione per i pargoli. Un po’ come succede in Alien, dopo tutto. Sul fronte paura tutto è composto come il genere richiede, pochi tratti e ben delineati a formare una solida base sulla quale Darabont, regista d’interni carcerari, costruisce qualcosa d’altro. Un micromondo variegato rinchiuso in un luogo troppo piccolo perché l’essere umano non si scanni con le proprie mani, prima che lo facciano i mostri. E attraverso la vetrata che divide il mondo conosciuto da quello sconosciuto si fa fatica a capire quale sia l’uno e quale l’altro. Ecco così che il supermercato diventa una casa trasparente di un qualsiasi mefitico reality televisivo, dove non si può vedere fuori ma da fuori si può assistere alla più spietata delle commedie umane. La micro comunità perde ogni aggancio con le proprie certezze e cerca di ristrutturarsi da capo, ridefinendo i gruppi di potere, facendo valere le rispettive posizioni anche se non soprattutto con la violenza. La tendenza a spaccarsi in una frammentata, debole rosa di individualismo ignorante è la chiave con la quale Darabont in buona sostanza rilegge la società odierna, in cui persa ogni possibilità di esercitare il proprio potere sui micro aspetti della vita, sui propri diritti visti come inalienabili e non come coacervo di un’ unità sociale, sugli oggetti che rendono la vita moderna facile e appagante; vista la cronica incapacità di una qualsiasi immedesimazione nella sfera emotiva altrui e dispersa la capacità di un dialogo sostenuto da un seppur flebile filtro intellettuale, basta un qualsiasi becero e paranoico fomentatore di masse per riunire sotto la propria bandiera gli spaventati individui, trasformandoli da onesti cittadini in faziosi militanti pronti a tutto. Alla faccia di un qualsiasi spirito democratico. L’aura di misticismo che innesca il farfugliare religioso della Sig.na Carmody, una grande Marcia Gay Harden, corrisponde nella realtà al proliferare di pseudo religioni dall’assetto paramilitare che offrono dietro compenso, facili risposte e soprattutto ottime giustificazioni ai fallimenti della vita, assoggettando al proprio volere l’individuo con la semplice promessa della redenzione. L’aspetto sociale, nel film è la componente più interessante, la padronanza degli spazi e la dimestichezza nel muoversi in luoghi claustrofobici è palese vista la militanza del regista nel genere “carcerario”. La tensione monta in modo estremamente genuina e sentita, l’ossessiva nenia dell’invasata è realmente disturbante, perennemente in sottofondo è lo schermo bianco sul quale vengono proiettate le paure dello sparuto gruppo di superstiti. Il clima che Darabont crea è quello disperato da “ultimo uomo sulla terra”, richiamando Richard Matheson alle proprie responsabilità letterarie, la sensazione che il gruppo di umani rinchiuso dentro un supermercato, come in una replica romeriana del proprio capolavoro, Zombi, divenendo per una crudele legge del contrappasso, merce tra le merci, è definitiva. L’inganno è anche e soprattutto nei confronti dello spettatore, condotto passo dopo passo a immedesimarsi nei pochi sani di mente che cercano di non arrendersi, fuggendo nella nebbia fino a perdersi tra titanici mostri colonizzatori di un pianeta che ribolle di suoni alieni, fino al beffardo, bellissimo finale, riscritto per l’occasione dal regista stesso, invertendo le coordinate kinghiane. Le uniche incertezze di un film comunque più che dignitoso sono proprio nelle manifestazioni orrorifiche. Darabont non è regista d’azione e la macchinosità di alcune scene (la prima manifestazione tentacolare dei mostri, l’attacco degli insettoni) disperdono quella tensione che si era accumulata nell’attesa. L’azione è infatti più che altro un gameplay mutuato dai survival horror alla Silent Hill, di cui in alcuni momenti sembra ricalcarne pedissequamente alcune scene: la fanatica religiosa; l’eroe nella nebbia armato di bastone; l’uso della torcia; il meccanismo del cercare l’oggetto che costringe ad affrontare nuovi livelli, nuovi mostri e consente l’avanzamento della storia; la limitatezza consapevole delle risorse; sono caratteristiche che ad un esperto videogiocatore non sfuggiranno. Altrettanto da videogioco sono le creature, quelle che palesate e non confuse nella nebba ultraterrena, hanno come limite quello della non credibilità, poco curate e fantasiose, poco “sporche” e inquietanti, pupazzose più che mostruose. E questo è un peccato, ed è una lezione che chi crea i film molto spesso dimentica: quando l’orrore esce dal buio molto spesso si ride per il ridicolo. Che il babau resti sotto il letto, o dentro la nebbia. O dove gli pare.
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