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Bianco e nero

Regia di Cristina Comencini vedi scheda film

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La recensione su Bianco e nero

di nickoftime
4 stelle

Essere figlio d’arte non deve essere cosa facile: il lasciapassare ereditato dal famoso genitore diventa alla lunga un condizionamento che sul piano artistico si traduce in una produzione senza spessore, eternamente indecisa sugli obiettivi (alti o bassi) da raggiungere e indecifrabile negli esiti finali: insomma un opera spuria che nel caso della Comencini e del suo “Bianco e Nero” delude tutti: in primo luogo lo spettatore di cassetta che si diverte a riconoscere se stesso sullo schermo e poi quello, sparuto ma di tendenza, sopravvissuto all’ondata del cinepanettone. Uno carriera freudiana (al contrario della sorella che ha trovato nel contesto contemporaneo l’ambiente ideale per un cinema dapprima intimista ed ora dichiaratamente civile) fatta di drammi a forti tinte(“Bestia nel cuore”) e Commedia leggera (“Liberate i pesci”) che la Comencini tenta di ricomporre all’insegna di quella Commedia all’italiana che a partire dai 50 voleva uscire dal ricordo della guerra senza tradire la realtà con uno sguardo accondiscendente e melenso. Modelli di un cinema diverso e da dimenticare se si vuole pensare a qualcosa di nuovo e imparare a camminare da soli, incominciando a lasciarsi coinvolgere, nella maniera disordinata e scomposta di chi il disagio lo vive veramente; puntando ad un prodotto che arriva al cuore del problema infischiandosene del gusto dominante e dei modelli precotti e di successo; provando a tirare fuori senza mediazioni ne ideologie (cosa che Bianco e Nero non fà) il mostro che c’è in noi, così da capire quello che c’è negli altri (d’altronde i grandi della commedia non interpretavano ma erano); in grado di leggere quella realtà che la Comencini vuole disvelare ed invece continua a disconoscere girandogli intorno con storielle infiocchettate di buoni propositi (in questo caso dimostrare che la differenza tra le persone la fa il cuore e non la pelle), ma risolte con le solite scorciatoie che evitano accuratamente il fosforo del pubblico e lo relegano nella solita apatia televisiva; senza “Parenti Serpenti” (quello si era un film che faceva male) che sembrano dei mostri ma in realtà non lo sono, e dialoghi che strizzano l’occhio ad un immaginario indeciso tra il boccaccesco (si fa per dire) Pieraccioniano (tutte le scene ambientate nella casa/lavoro della sorella della splendida protagonista) ed il decor borghese Ozpetekiano su cui il film sembra sparare e da cui non si emancipa neanche un momento. Bianco e nero è un film scaturito dai sensi di colpa di chi non sa rinunciare ai propri privilegi ma d’altro canto non ha neanche il coraggio di viverli liberamente; si contornia di volti (Fabio volo, un non attore che davanti alla telecamera fa la sua figura perché almeno per il momento ci si pone ancora come un principiante) e corpi rassicuranti (quello neutro e pieno di responsabilità dell’Angioini si contappone alla materna carnalità dell’attrice Africana) che non riescono mai a trasfigurare nella maschera delle nostre ipocrisie (nel film un integrazione razziale espressa a parole ma evitata nel privato) ed a incarnare i vizi privati e le pubbliche virtù enunciate dall’assunto del titolo (fuori belli dentro marci). Costretto a districarsi tra l’amor fou dei due protagonisti, impegnati a realizzare l’incontro delle razze dando vita all’ennesimo Love Story (con la differenza che lì era la malattia qui le diversità culturali a contrastare il lieto fine), e le ripercussioni dei rispettivi ambienti familiari, costruite con siparietti insufficienti a soddisfare le esigenze di genere, il film perde ritmo, e scialacqua la dose di simpatia guadagnata nei minuti iniziali con uno schema piatto e telefonato che sfocia in un happy end a cui si finisce per non credere.

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