Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
La storia di un uomo che "vende l'anima a Dio" per il petrolio. E la storia di un altro giovane uomo che fa la stessa cosa per i soldi. Ed entrambi hanno "venduto l'anima a Dio" per il successo. Queste, unite ad un incrollabile fanatismo religioso, sono le coordinate entro le quali si muove la vicenda narrata nel "Petroliere", che è un po' anche la storia dell'espansione statunitense verso ovest e della colonizzazione di quelle praterie che, dopo lo sterminio dei bisonti e dei pellerossa (in rigoroso ordine d'importanza, almeno secondo l'ottica yankee), sembravano ormai lande desolate, da dedicare ad attività insignificanti - come la caccia alle quaglie - e costituivano comunque un ostacolo al collegamento tra la costa atlantica e quella pacifica. P.T. Anderson, predestinatamente nato a Studio City (sobborgo losangelino cresciuto intorno agli studi cinematografici fatti costruire da Mack Sennett negli anni Venti) ha la predisposizione per i film lunghi e questo lo è un po' troppo. Per il finale gli sarebbe servita - e sembra andarne in cerca per un po' (anche se il soggetto è preso da un romanzo di Upton Sinclair) - una nuova pioggia di rane: il regista si affida, invece, ad una specie di scena madre shakespeariana, che però non ha altrettanta efficacia.
"Il petroliere" (è già stato detto, ma lo ripeto anch'io: sarebbe stato meglio tradurre alla lettera il titolo originale inglese, che avrebbe suonato più o meno "scorrerà il sangue"), frutto di una minuziosa ricostruzione storica, di luoghi e di costumi, è un film tutto americano, spettacolare come un vecchio filmone americano di Ford o Hawks, con la prateria a fare da personaggio più che da semplice sfondo, e con una tenuta spettacolare di cui non si può non riconoscere la riuscita. In sostanza, si resta lì in attesa degli eventi e dei colpi di scena, che avvengono, come da copione, e non lasciano insoddisfatto lo spettatore. Daniel Day-Lewis è bravo ma secondo me (anche qui non m'invento niente: l'aveva già detto Alberto Crespi sull'Unità del 9 febbraio 2008) tende, in questo caso più che altrove, a gigioneggiare, cosa che, in ogni caso, sembra piacere, e molto, agli accademici che attribuiscono i premi Oscar. Per quanto mi riguarda, preferisco ricordare l'attore inglese nei panni del ladruncolo Gerry Conlon, patriota per caso di "Nel nome del padre" (1993).
P.S. 16,90 € per il dvd di questo film, per di più zavorrato dalla rivista "Panorama", sono decisamente troppi.
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