Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Il capolavoro. Così si dovrebbero fare i film. Dove la narrazione non è la solita accozzaglia fluida di scene legate tra loro logicamente; dove i dialoghi non sono in ostaggio del campo e controcampo; dove la chiarezza classica lascia finalmente il posto alla suggestione visiva, all’orchestrazione e alla coreografia della messa in scena, del montaggio e degli scarti. Paul Thomas Anderson firma una pellicola che si differenzia da tutti i prodotti cinematografici presenti oggi sul grande mercato mainstream. É un’opera visiva, che del visionario riprende l’incedere delle immagini disegnate su vasti scenari crudi, desertici, realistici ma al tempo stesso apocalittici. C’è una bellezza visiva che fa il paio con l’acerrima guerra di caratteri tra Daniel Day Lewis e Paul Dano: da un lato il fanatismo capitalistico, dall’altro il fanatismo religioso. Ma stavolta la verità non sta nel mezzo, e forse non lo è mai stata. Incapaci di collocarla in uno dei due estremi allucinati della pellicola, e tantomeno nell’equilibrio del compromesso centrista, la verità è comunque presente in tutto il film. Forse non l’avvertiamo; forse non la sentiamo, sordi anche noi a causa del molto rumore per nulla che fa il petroliere del titolo; forse non sappiamo riconoscerla; forse non sappiamo individuarla tra le maglie della Natura, dove forse la verità è così radicata da sfuggire ai nostri occhi contaminati dal fantatismo e corrotti dalle ideologie e dai dogmi.
Il film inizia con un lungo incipit silenzioso, senza dialoghi, ma completato da immagini gigantesche, quasi herzoghiane nel loro mostrare l’uomo piccolo nella natura e nel suo assiduo tentativo di domarla, piegarla, consumarla. Attraverso l’iconografia western che quei paesaggi, quelle terre e quel periodo storico ci regalano, il film disegna il corso di un fiume nero su terre dorate, arse dal sole che le bronza. Un fiume che divide e non unisce, che allucina e non mitiga. L’impoverimento morale dei protagonisti li distrugge. Col passare del tempo, dall’inizio solare ed euforico della ricerca dei terreni da trivellare, al crepuscolo, alla notte senza luci della decadenza del Dio prescelto (chi l’oro nero, chi il Dio distruttore del vecchio testamento), vediamo il passare dell’emozione, il suo sgretolarsi davanti ai nostri occhi. La narrazione si stanca, si allunga, si oscura in zone di buio domestico, scende e si inabissa nell’isolazione capitalista. Tutto si chiude in una gigantesca villa, esagerazione consumistica, degenerazione dell’individualismo da terra promessa, e arriva il sangue, il sangue del titolo originale: “there will be blood”. Perchè è lì che siamo destinati ad arrivare quando la verità etica viene spazzata via dai vari fanatismi che l’uomo cerca in ogni dove, pur di acquistare potere e sicurezza di sè. L’uomo debole deve possedere. L’uomo debole deve credere in una superstizione che esorcizzi il proprio vuoto davanti alla verità spiazzante della vita vera, della realtà della terra, della Natura e dei suoi dolori. La vecchina con l’artrosi è simbolo dell’ignoranza e della povertà ambientale di un paese che mette ai margini di sè il grosso del pensiero, e si arrocca invece in torri d’avorio o in torri di legno sotto cui si consuma il rito della penetrazione del suolo in cerca dello sperma nero. É una vecchina che crede, che vede nell’orazione maniacale di un bel giovane wasp filo-ariano l’incarnazione del Dio bello e pulito che le fanno credere. Così, il demonio che si sarebbe impossessato delle sue mani artritiche, è in realtà una menzogna, e il vero demonio vive appisolato nella follia incontenibile del giovane pastore che confonde Dio con il potere di manipolazione, e confonde la creazione di una Chiesa tutta sua con la ricerca del denaro facile. Gli dà volto un grande attore: Paul Dano.
Non è da meno quel petroliere che campeggia nel bellissimo titolo di distribuzione italiano. Rovinato dagli sforzi di una vita, corroso dal tempo passato chino a vangare e picchettare in cerca del petrolio, Daniel Day Lewis incarna l’uomo moderno capitalista che svende al miglior offerente la sua innocenza, figlioletto compreso usato come scimmietta ammaestrata, a cui da volto uno spiazzante, bravissimo, piccolo Dillon Freasier. Si trascina ingobbito, rachitico, malaticcio, isterico e nevroticamente labile ed instabile, ma è lui che comanda e si prende gioco di tutti, anche della credenza popolare, del povero villico che non ha fatto nulla di male se non di nascere povero e ignorante. La scena del suo battesimo sarà il biglietto da visita con cui l’attore inglese si presenterà a noi ogni volta che passeremo due ore a vedere questo “Petroliere” senza dimenticarcelo.
A completare la gigantezza dell’operazione riuscitissima di Paul Thomas Anderson c’è la colonna sonora. Un accompagnamento musicale che ricorda le cadenze del cinema muto, quando il gesto e l’immagine erano centrali nelle intenzioni dei registi. Un accompagnamento musicale in linea diretta con le sonorità classiche dell’opera, che danno così la giusta dimensione tragica e teatrale a questa straordinaria messa in scena. Una messa in scena in cui al centro del discorso, pur non vedendolo, c’è il Diavolo. Il giovane folle pastore lo combatte a forza di patetici sermoni, mentre il petroliere lo sfida sul suo terreno da gioco. Ma la riflessione amara, che alle chiese e ai governi non piacerà, è racchiusa nelle battute finali del più grande romanzo brasiliano del Novecento, “Grande Sertão”: il diavolo non c’è! É quel che dico, se fosse... Quel che esiste è l’uomo. Traversia.
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