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Il petroliere

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il petroliere

di Fabelman
9 stelle

Condensazione di un’intera umanità, nella sua sfrenata ossessione di soddisfare i propri impulsi primordiali, nella denaturata esistenza di un sol uomo. Specchiamoci ma stiamo a distanza dal primordiale uomo che è in ognuno di noi.

Non è semplice far scivolare via i 158 minuti complessivi della pellicola, è infatti un film rude, ruvido, faticoso come un’opera di trivellazione di un pozzo petrolifero sul finire dell’800.

L’incipit è da antologia, un film nel film, dove non si spiffera una parola ma, pur non parlando, comunica che è un piacere, un piacere che coinvolge la vista con una fotografia spettacolare, il suono immersivo conquista l’udito e finanche il tatto sembra attivarsi restituendo sulla propria pelle il supplizio a cui si sottopone il protagonista per strappare dal ventre della terra tutto ciò che di prezioso viene considerato quassù.

“Il petroliere” è a buon diritto considerato tra i migliori titoli di sempre, di certo Daniel Day-Lewis sfodera (l’ennesima) performance della vita con un’interpretazione che trova pochi pari nella storia del cinema.

L’ossessione della ricchezza, del predominio che porta a prevaricare su singoli e intere comunità, adulti e bambini orfani con menomazioni fisiche, predominio da manifestare in extrema ratio con l’omicidio se necessario per placare la propria sete di potere, di conquista.

Sete del potere che rende disposto il protagonista a umiliare addirittura se stesso, dinanzi a una congrega di fedeli riuniti in una chiesa, ai piedi di un predicatore che nella sostanza, seppur non nella forma, persegue lo stesso istinto primordiale del predominio, che degrada la propria e l’altrui dignità. 

Daniel Plainview (il petroliere, Daniel Day-Lewis) e Eli Sunday (il predicatore, un bravissimo Paul Dano) sono le due facce della medesima medaglia di una natura umana distorta, contorta, meschina calcolatrice. È indifferente travestirsi di onesto imprenditore e padre di un bambino sordo o indossare una tunica in qualità di portatore dei valori cristiani e rappresentante di Dio; i due antagonisti sono punti equidistanti posti sulla spirale dell’odio che convergeranno sullo stesso centro.

Il personaggio di Day-Lewis affronterà una, definiamola epopea autodistruttiva. . .un uomo che si priva di sogni, di speranze, di legami affettivi per assorbire, denudare un sottosuolo e la comunità poggiata su di esso, finisce per prosciugare e inaridire il suo animo almeno tanto quanto i suoi preziosi giacimenti.

È una pellicola volutamente destinata ad un pubblico cinefilo, in quanto amatori del buon cinema, volontà quella di Paul Thomas Anderson (che scrive e dirige) manifestata con la dedica della sua opera a Robert Altman scomparso circa un anno prima dell’uscita nelle sale.

Con questo lavoro Anderson raggiunge il gotha dei grandi registi, l’apice di una carriera, un artista a cui va dato il merito di assegnare ai suoi film una cifra stilistica chiara e definita, contenuti di spessore, che investe il suo talento in opere di non facile richiamo al botteghino, dirette a un pubblico specifico e ricercato (“Il filo nascosto” su tutti).

A dimostrazione del merito attribuitogli, degne di nota sono le 11 candidature agli Oscar ricevute tra il 1998 e il 2022 in qualità di sceneggiatore/produttore/regista a seconda dei casi.

Tutto contribuisce all’unicità e a rendere epica questa pellicola, ma la fotografia di Robert Elswit fa la parte del leone, macchia lo schermo quel petrolio che esplode dal profondo.

Fotografia premiata agli Oscar insieme a quel “mostro” di Daniel Day-Lewis, secondo il sottoscritto il miglior attore che il cinema abbia mai avuto l’onore di mostrare al pubblico. Assistere a un interpretazione di Daniel Day-Lewis è un privilegio per lo spettatore, godiamocelo. . . “Ho finito”.

 

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