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Il petroliere

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il petroliere

di Gangs 87
6 stelle

1898 Daniel Plainview è un minatore d’argento che casualmente scopre un giacimento petrolifero in una delle sue miniere e decide di mettere in piedi una compagnia di estrazione; seguendo l’imbeccata di un giovane viene a conoscenza di una terra colma di oro nero e, in breve tempo, diventa ricco; il rovescio della medaglia però è che una serie di sfortunati eventi si abbatteranno su di lui.

 

Avido, dedito solo al lavoro e quasi del tutto anaffettivo, Plainview stupisce quando adotta il figlio di un suo dipendente che muore a causa di un incidente sul lavoro. L’ambiguo rapporto che crea con H.W., presentandolo a tutti come suo figlio la cui madre è morta di parto, è animato dalla capacità di sfruttamento che Daniel sembra possedere verso qualsiasi cosa, affetti compresi, privandolo di umanità più per tigna che per incapacità. L’intenzione di “sfruttare” è chiara fin dai primi momenti della pellicola in cui ci viene mostrato continuamente come l’uomo riesca a modificare i suoi obiettivi in base a cose e persone che ha a disposizione, anche la figura di Paul/Eli Sunday ne è la più concreta dimostrazione.

 

Seppur arricchito da una fotografia bellissima e potente, la narrazione di Paul Thomas Anderson è corposa, troppo corposa. Gli elementi che compongono il racconto sono effettivamente eccessivi: politica, economia, religione, famiglia, psicologia, e tentare di riunirli tutti attraverso l’unico filo conduttore Daniel finisce per essere un’ardua impresa non propriamente riuscita.

 

La prova di Daniel Day-Lewis è sì degna dell’Oscar (e di altri numerosi premi vinti) che gli è stato assegnato ma troppo impegnativa per garantire allo spettatore l’attrattiva necessaria a mantenere alta l’attenzione dello stesso che dopo l’intensa prima parte, della durata di circa novanta minuti, è talmente esausto che accoglie la seconda con l’augurio di vedere presto i titoli di coda, chiedendosi spesso dove esattamente si voglia andare a parare. E se il cinefilo si diletta con l’individuare la simmetria in alcune inquadrature o piuttosto nel lasciarsi catturare da certe prospettive, lo spettatore medio subisce l’inevitabile effetto soporifero.

 

Questa sensazione di essere come sedati per tutta la durata della pellicola è un effetto che si percepisce anche in altre pellicole del regista, almeno in tutte quelle che ho guardato, tanto che inizio quasi a chiedermi se non sia una sua voluta caratteristica, come questa necessità di raccontare uomini assuefatti dal potere (The Master è un altro palese esempio ma nemmeno Magnolia è da escludere) fino a diventarne schiavi che si crogiolano nella conquista di quel qualcosa che poi finisce per consumarli.

 

I venti minuti conclusivi, insieme alla performance di Daniel Day-Lewis valgono di certo tutta la sofferenza visiva dei primi centotrentotto minuti. Come ogni volta Paul Thomas Anderson è capace di farsi perdonare sempre sul gong.

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