Regia di Sylvester Stallone vedi scheda film
Con quest’ultimo film Stallone continua nel recupero in prima persona delle sue maschere più famose, deformate dall’entusiasmo reaganiano degli ultimi Anni Ottanta in icone di un’America tendenzialmente imperialista, cercando di riportarle ad una dimensione più umana e fedele all’ispirazione originale. Se Rocky si prestava maggiormente ad un’operazione di aggiornamento nostalgico, Rambo, per la natura stessa del personaggio, rimane più ostico ad ogni forma di umanizzazione. Bloccato in un’afasia che gli impedisce di esprimersi per più di due frasi di seguito, costretto da un imprinting militare a comunicare sparando, in perenne sospetto di lobotomia per la fissità ovina dello sguardo, Rambo rimane inevitabilmente simile a sé stesso, alla costante e tragica ricerca di un senso alle proprie azioni e alla loro mortale efficacia. Meno complesso e tecnologico di Jason Bourne, John Rambo è solo una macchina per uccidere in forma umana che, finalmente, scricchiola e forse si inceppa.
Ormai riciclatosi anonimo pescatore e cacciatore di serpenti in Thailandia, Rambo scorta controvoglia una pattuglia di missionari più o meno laici in un’incursione nel temibile vicino territorio Birmano. Per i ferventi cristiani, dediti alla conversione e al soccorso di popolazioni maltrattate, le cose si mettono presto al peggio tra torture, esecuzioni, violenze, sadismi di vario tipo e conseguente decimazione degli americani benintenzionati. All’ex-reduce del Vietnam tocca quindi riaccompagnare sul medesimo tratto di fiume una squadra di mercenari ingaggiata per il salvataggio in extremis dei sopravvissuti e si trova ad affiancarli sfoggiando per l’occasione le sue mai sopite doti distruttive.
Con l’abbondanza di manomissioni digitali, Stallone rivendica un iperrealismo violento nella distruzione di corpi fatti a brandelli da esplosioni e colpi d’arma da fuoco, sembra tacitamente sottolineare l’assurdità di ogni conflitto, per quanto giustificabile dalla crudeltà dell’avversario, l’inutilità del sacrificio, tutto riducendosi ad una macelleria variamente efferata. Rambo stesso non sembra più animato da rabbia forsennata e pare spesso uno spettatore partecipe piuttosto che l’indubbio eroe sul campo, come se non si riconoscesse più in quella violenza che lui stesso elargisce con facilità. Privo ormai di una figura di riferimento (il suo vecchio comandante, il defunto Richard Crenna), incapace di trasformare la debolezza verso la ragazza americana in sentimento e deluso dalla sostanziale indifferenza di lei, Rambo sembra per la prima volta scoprire la futile brutalità che lo circonda e a cui prende parte, vede militari occidentali prezzolati e privi di ideali che combattono regimi mercenari inutilmente sadici e aspiranti al genocidio, mentre illusi samaritani mandano molte vite al macero nel vano tentativo di salvarne le anime. Ogni senso si è esaurito e le battaglie si susseguono, i prigionieri liberati sono solo una fortunata minoranza, ingiustamente selezionata mentre la popolazione continua a languire nel dolore e nei soprusi. La violenza contraccambiata non pare portare ad altro che alla propria ripetizione, semplice reiterazione di una morte inflitta su scale differenti in spirali crescenti di danni collaterali, sangue su sangue di corpi straziati che si affastellano con incuranza.
Ideologicamente ambiguo, il film di Stallone sembra affermare l’inevitabilità del ricorso alle armi in alcune situazioni, asserendo l’inutilità della partecipazione umanitaria in teatri di guerra estremi come il regime birmano. Eppure sembra anche astenersi dal celebrare la militanza armata, cercando nell’ovattata presa di coscienza del protagonista uno sguardo, se non critico, almeno dolorosamente disilluso, l’epifania della chiarezza del proprio fallimento esistenziale.
Se il protagonista rimane del tutto alieno da ogni forma di consapevole introspezione, pare in lui maturare il dubbio che il confino indonesiano autoimposto, dopo il fallimentare tentativo di rimpatrio del primo film, sia giunto al termine, che il ritorno a casa sia infine possibile; indossando gli stessi panni e percorrendo le stesse strade di First Blood, John Rambo chiude il cerchio con un faticoso e prolungato piano-sequenza in cui il personaggio avanza per un lungo vialetto di accesso e che sfuma prima dell’approdo alla fattoria del padre e lascia incerti sull’esito dell’iniziativa.
John Rambo, dall’andamento di azione e reazione compresso in un’ora e mezza, è un film lineare, dalla semplicità parallela al suo personaggio principale, con pochi dialoghi essenziali, nessuna grossa digressione (alcuni flash-back delle puntate precedenti) ad esclusione un incipit fin troppo didascalico sulle condizioni della tragedia birmana che ha l’apparenza di essere stato scaricato da internet ad uso e consumo di un pubblico non informato. Ma questa introduzione ambientale risuona alla fine come una parentesi uguale e contraria alla sequenza conclusiva del rientro in patria del protagonista, irrisolto e tormentato, che gira le spalle ai conflitti per tornare in sé e a casa mentre il mondo rimane in guerra. Il reduce di ogni battaglia abbandona la violenza, l’eroe involontario tramonta al sorgere del dubbio sul proprio ruolo e al definitivo crollo di ogni sistema di riferimento. Non si sa se ci sarà pace interiore o familiare per Rambo, se il padre biologico sostituirà il graduato padre putativo, ma la disperata lotta armata sembra infine un capitolo chiuso con un film, sebbene relativamente grossolano e funzionale nella regia, tuttavia ben più disilluso di tutti i personaggi che lo abitano.
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