Regia di Rob Zombie vedi scheda film
Dopo il sequel, il remake, il prequel, il newquel, Rob Zombie mettendo mano al capolavoro Carpenteriano si inventa un Premake, ovvero un prequel che ad un certo punto invade l’orizzonte conosciuto e con esso cammina pari passo ricalcandolo fino alla fine. O quasi. L’operazione di riprendere l’Halloween di Carpenter era di per sé rischiosa quanto cercare di rifare il look a Gesù Cristo in croce, per come il film del 1978 sia considerato di culto da tutto il mondo cinefilo. Eppure, il buon Zombie a costo di sembrare blasfemo, sforna soprattutto un’opera di grande intelligenza e ottima capacità cinematografica, andando a marchiare con il suo stile, sempre più personale e riconoscibile, un “brand” che a tutti gli effetti era stato un po’ svenduto nel corso degli interminabili e risibili sequel e scopiazzamenti vari, facendolo risplendere di una nuova luce. La Famiglia Firefly si trasferisce a Haddonfield. Potrebbe essere il titolo di una sit com. In effetti nella cittadina famosa per il massacro di Halloween in cui il male assoluto prese a manifestarsi, Zombie cala la sua malata percezione dell’America dei diseredati, dei degenerati in cui il male mutuato dalla miseria e dall’ignoranza è componente base della quotidianità demente, in particolare della famiglia, agonizzante cellula base di una società di disfacimento. Quella che nei precedenti “La casa dei 1000 corpi” e “La casa del diavolo” era la famiglia killer retta da regole matriarcali e autarchiche, qui diventa la famiglia Meyer, in cui il secondo di tre figli di mamma Meyer, una bellissima e bravissima Sheri Moon Zombie, è proprio il nostro Michael. Da piccolo. Mai mostrare l’origine del male, o meglio le cause, poiché il rischio è quello di ridurne l’efficacia donandogli pretesti, giustificandolo. Questa regola principe degli horror viene ribaltata da Zombie a suo favore. Egli ci mostra l’origine del male non nella sua genesi, non attribuisce colpe, poiché il male assoluto esiste a prescindere e le condizioni di vita lo aiutano solo a palesarsi più naturalmente. L’angioletto biondo (un incredibile Daeg Faerch, capace di comunicare dolcezza e follia in un medesimo sguardo ) che con la maschera da pagliaccio brandisce il coltello e fa fuori la famiglia intera è già il male, ed è conscio di questo in quanto mascherandosi continuamente cerca di rendersi invisibile, di cancellare la propria identità agli altri e agire impunito. E’ il nulla cosmico, senza remore e senza sentimenti, è una maschera dagli occhi vuoti. Non a caso indossa sempre la maglietta dei Kiss, che della maschera e del celare l’identità hanno creato un mito durato per un trentennio buono. Si resta affascinati dall’incedere nel buio del piccolo Mayer, della sua inutile psicoterapia con il dott. Loomis (un ottimo Malcom Mc Dowell), si colma la curiosità cinefila di come si sia procurato la maschera bianca senza espressione e la tuta da meccanico, dando corpo e vitalità ad un immaginario ben radicato nella memoria di chi ha amato il capolavoro di Carpenter. Ma c’è di più, la geniale intuizione di Rob Zombie nell’insistere sulle ambigue fattezze del piccolo Meyer è che una volta cresciuto, e tanto, visto che il Michael Meyer maturo è un ragazzone di 2,08 m impersonato dal Wrestler Tyler Mane (già Sabrethoot in Xmen), è che al contrario il suo viso non viene mai mostrato, sempre in ombra o coperto dai lunghi capelli à la Rob Zombie, appunto. Il risultato è che sotto la maschera senza espressione, lo spettatore rimane con l’unico appiglio alla realtà che gli è stato fornito: il volto del ragazzino. La sensazione è assolutamente disturbante, il male rimane sostanzialmente sé stesso, innocente come il viso di un bimbo incapace di provare rimorso ed è espediente efficace a trainare il film quando da originale prequel si aggancia agli avvenimenti della notte di Halloween descritta da Carpenter. Qui il film si adagia ad un più convenzionale slasher adolescenziale ed è forse la parte debole di un comunque buon film. Rinunciando alle soggettive che identificavano lo spettatore nell’assassino dell’originale, Zombie abbonda in carrelli e sfrutta appunto il fattore “Fearch”, inondando lo schermo di una furia primordiale mutuata come contrapposizione dal ricordo della personalità infantiloide del mostro. Rob Zombie si dimostra un ottimo regista e un grande conoscitore del genere, capace di evitare tutti i luoghi comuni dei film horror creando atmosfere distorte, vite filtrate da una lente critica prima di tutto, una sua personale visione della società della violenza, della decadenza di ogni sorta di umanità, dell’abbruttimento che lo spavento per una vita assurda comporta. Cast già in qualche modo autoreferenziale ma valore aggiunto ai film fino ad ora realizzati: nei film di Zombie nessuno recita male. Sheri Moon, la bella e solidale moglie, Malcom McDowell, Brad Dourif, William Forsythe, Udo Kier, Danny Trejo il fedelissimo, formano un gruppo di “facce” della serie B zona promozione della cinematografia in grado di comunicare emozioni solo con la presenza in video. Oltre al già citato, esordiente Daeg Fearch, adolescente di grande intensità e ambiguità recitativa. Colonna sonora metal, come da copione, svetta la splendida “God of Thunder” dei Kiss in apertura di film.
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