Regia di Rob Zombie vedi scheda film
Non giriamoci intorno: Michael Myers non doveva ricominciare daccapo, ma riprendere da dove era rimasto. Rob Zombie, al momento del reboot, era il più interessante regista horror sulla piazza, poi ridimensionato dall’esagerazione manierista e vuota dei film a venire. Caduta libera di stile iniziata proprio con questo rifacimento inutile del cult di John Carpenter, Halloween (1978). Carpenter infatti, aveva creato qualcosa di diverso da ciò che ri-mette in scena Zombie e al tempo stesso lo aveva raccontato con un linguaggio universale e mai databile, quello del fantastico, dell’enigmatico todoroviano.
L’horror, essendo il più politico tra i generi cinematografici, può occuparsi di tutto ciò che riguarda società, politica, antropologia, sociologia, psicanalisi, etc. Uno dei bersagli preferiti dell’horror carnale americano è l’istituzione famigliare. Le famiglie “mostruose” di Craven piuttosto che i deviati cannibali dell’America Rurale di Leatherface e le finte e patinate famigliole dell’America Bene di Carpenter, sono infatti oggetto e corpo da mattanza di alcuni tra i più celebri horror della storia. É chiaro che sotto questo punto di vista, politico e artistico, la versione di Zombie di Halloween sia centrata ed efficace. É cattiva, è sporca, non lascia speranze. É distruttiva, è deflagrante, è spiazzante (perché uccidere i genitori di Laurie Strode?). E’ tutto questo, ma non è Michael Myers. Riporto le parole, importanti, di Gervasini “Quando John Carpenter realizzò “Halloween” (1978) l’argomento [quello della “famiglia”, ndr.] gli interessava poco, essendo il film una ricognizione (in soggettiva...) degli istinti repressi dell’America profonda e puritana, quelli che se esplodono fanno malissimo e generano efferati serial killer o candidati presidenti che sostengono di parlare con Dio”. Come non capire, quindi, l’importanza del primo capitolo carpenteriano in cui ad una spietata denuncia della repressione borghese americana si accoppiava una narrazione di atmosfere e di ombre ataviche che prendono forma e arrivano come punitori castranti? Come quindi non riconoscere nell’operazione di Zombie qualcosa che, comunque sia, nel bene e nel male, si allontana da questa intenzione autoriale di Carpenter per mostrare, neanche poi tanto pornograficamente (cosa che avrei preferito, a questo punto), la carne che si spezza.
Il film è diviso in due grosse parti. Per tutto il primo tempo si indaga la genesi del male, ovvero l’infanzia di Michael Myers. Poi, nell’arco del secondo tempo, viene riproposto, tagliuzzato e sintetizzato, il film originale di John Carpenter. Quello che rimprovero a Zombie è che non c’era bisogno di spiegare la genesi del male, e nemmeno di rifare il film originale apportando solo un certo restyling estetico. La potenza narrativa e iconica di Michael Myers è che non sai chi o cosa c’è dietro la maschera. In Halloween (1978), a parte il bellissimo incipit di Carpenter dove vediamo Michael di sfuggita in camice ospedaliero, immediatamente dopo lo vediamo direttamente in tuta da meccanico e con la maschera di Star Trek. Abbiamo solo un’infarinatura di ciò che è stato, e solo la grandissima performance di Donald Pleasence ci restituisce il valore di Michael Myers, il suo essere Ombra junghiana, il suo essere uomo nero, il suo essere occhi del diavolo, il Male Assoluto. Michael arriva, si arma di coltellaccio da cucina e uccide cercando la sua sorellina, che in questa nuova versione non c’entra nulla con Jamie Lee Curtis. In Carpenter tutto è silenzioso, mitico, atavico fino nella rappresentazione linguistica del segno cinematografico. In Zombie è tutto più sporco, tutto più barocco. Che Halloween di Rob Zombie sia invece poggiato su ben altro, ovvero sull’estetica “dirty” propria di Zombie e del miglior horror di oggi e di ieri, lo allontana irrimediabilmente dall’originale. In più ha un appeal commerciale ravvisabile proprio in tutto questo “spiegazionismo” che ha fatto la felicità di diversi remake-sequel-prequel o anche equel prodotti in questi ultimi dieci anni di terrori cinematografici.
Il film inoltre, cade clamorosamente verso la fine, e non solo per i due o tre o quattro finali che perpetuano una stanchezza e credo pure un’indecisione autoriale su cosa “mostrare”, ma soprattutto il momento in cui il dottor Loomis dice a Michael «Michael! É tutta colpa mia. Io ti ho abbandonato!». Ma sarà mica credibile il fatto che Michael resti lì ad ascoltarlo tenendo in ostaggio Laurie Strode come tanti assassini televisivi (cioè innocui)? In Zombie vediamo fin troppo nitidamente chi c’è dietro la maschera. In Carpenter dietro la maschera c’era il Male, teorico, filosofico, forse già quantistico. La saga di Halloween punta sulla metafisica e non sull’oggettivazione del mito, tant’è che il primo episodio è per lo più in soggettiva dell’assassino, mentre Zombie rende il suo Michael un sociopatico reale, crudo, vivo e vegeto, con anima e corpo. Non basta ipotizzare che sia l’Anticristo. Il Michael di Carpenter, invece, era solo corpo. Corpo e ombra.
Forse l’aspetto più bello del film è l’utilizzo di celebri caratteristi dai volti iconici e dal background horror indiscutibile, che purtroppo saturano la pellicola inutilmente, sprecando il proprio apporto. Abbiamo in ordine: Malcom McDowell, Sheri Moon Zombie, Brad Dourif qui copia buona dello sceriffo razzista di Mississippi Burning ma famoso anche per Alien: Resurrection e altri cult horror; William Forsythe, grezzo redneck arrivato direttamente da The Devil’s Rejects; il grande Richard Lynch, villain doc di celebri telefilm americani, che debuttò alla grande in Scarecrow in opposizione a Gene Hackman e Al Pacino; Udo Kier qui ampiamente sprecato, Danny Trejo amato Machete, Bill Moseley e Sid Haig direttamente dai due capitoli dei “rejects” di Zombie e Leslie Easterbrook, seconda Mother Firefly, ma soprattutto tosta agente Callahan di Scuola di Polizia. Io avrei fatto un film completamente diverso. Cast sprecato e film inutile. Non basta la buona fattura, seve l’anima… o l’ombra.
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