Regia di Francis Lawrence vedi scheda film
Non perdiamo troppo tempo dietro a questo brutto film che merita davvero poca attenzione e non rende giustizia (anche per le troppe variazioni apportate all'ottimo racconto di Richard Matheson: meglio recuperare allora “1975 – Occhi bianchi sul pianeta terra” e soprattutto "L'ultimo uomo sulla terra di Ragona ispirati dalla stessa fonte.
Dichiarare questo “pasticciaccio brutto” (almeno la seconda parte lo è davvero) come una pellicola “ispirata” al bellissimo racconto omonimo di Richard Matheson, come recitano i titoli di coda, è quasi un’eresia, perché francamente il film ha davvero poco da spartire (salvo l’incipit iniziale che sembrava voler promettere cose che poi si guarda bene dal mantenere) con le tragiche implicazioni esistenziali (e anche socio-politiche) di quella travolgente “provocazione” letteraria densa di intuizioni e di “ammonimenti” che resta ancora oggi una delle vette massime della narrativa di fantascienza e non solo. Non è che mi spaventi in genere la mancanza di conformità “strutturale” con la fonte, perché so (e comprendo) che le differenti modalità di rappresentazione che distanziano le “parole” dalle “immagini” necessitano spesso di “mediazioni” anche profonde (leggi “libertà espressive”) che possono persino far leggermente “divergere” (ma mai in modo così sostanziale da snaturarla completamente come nel caso in esame) l’interpretazione “personalizzata” del regista dalla posizione più radicalizzata e “francescana” dell’autore del testo originario. In fondo quello che è importante, pur con i “necessari” aggiustamenti di percorso che ne potrebbero diminuirne l’impatto (ed è un rischio che molto spesso si corre con gli adattamenti cinematografici di opere "imprescindibili")è che resti per lo meno analogo il “senso” (o, in alternativa che, venga sostituito con qualcosa di ugualmente pregnante, magari più aggiornato e in linea con l’attualità dei temi della contemporaneità). Non è quindi l’infedeltà rilevabile (e le troppe arbitrarie licenze) a farmi imbestialire (era già accaduto con una delle precedenti “riduzioni”, e il risultato in quel caso mi era sembrato molto più che accettabile, oltre che fortemente coinvolgente nonostante le alterazioni, il che significa che comunque esisteva l’ingegno dell’invenzione a sorreggere l'impiantio), ma l’inammissibile misfatto perpetrato, che questa volta annacqua e annulla (rendendolo impercettivo, e quindi assolutamente innocuo e privo di “spessore” anche comunicativo) proprio il “contenuto evocativo” dell’opera e la sua finalità “didattica”, ribaltando persino, con la spudorata, pedissequa analogia “di superficie” dell’immutato titolo, il suo significato “innovativo” e provocatorio - perché teso a “scardinare” gli stilemi codificati del genere, e quindi molto di più (e di diverso) delle pomposa apologia finalizzata a “celebrare” l’instancabile, muscolare “laboriosità” del protagonista, martire ed eroe al tempo stesso, volontariamente immolatosi sull’altare del “sacrificio” per consentire una (im)possibile “rinascita” di un mondo ormai scomparso, che è appunto la dimensione che (purtroppo) assume nel nuovo contesto cinematografico (in questo molto più simile al precedente adattamento di Boris Sagal del 1971 a cui si accennava prima: “1975 – Occhi bianchi sul pianeta terra” che già conteneva nel suo finale e se possibile in modo ancor più accentuato e "radicale", questa "allegoria" di stampo prettamente religioso: l’uomo che dona il suo sangue e che muore come in croce per la salvezza dell’umanità. Ricorda qualcosa il parallelo inevitabile?). E questa volta purtroppo non vengono nemmeno fornite alternative soddisfacenti, o interpretazioni sociologiche di rilievo (salvo piccole “annotazioni a margine”), analogamente inquietanti che possano in qualche modo nobilitare il percorso compiuto fino a renderlo autonomo (come nel precedente caso), al di là di quell’imbarazzante (e scontato) quanto elementare misticismo consolatorio “appiccicaticcio” e senz’anima (anche perchè rispetto al modello ha perso per strada tutte le implicazioni “pacifiste” e di carattere politico che quello esplicitava, o persino la sua volontà di denunciare, stigmatizzandone il risultato, gli effetti di una “pazzia” collettiva che era in quegli anni una delle preoccupazioni primarie da esorcizzzare). Forse sarà per questo che diventa adesso una soluzione improbabile e di comodo (e come tale, assolutamente risibile e deleterio nella sua ovvietà conformata) questo clericalismo "salvifico". Chi ha voglia di verificare di persona la veridicità delle mie asserzioni, può prendersi la briga (il piacere) di leggere Matheson (non è un romanzo lunghissimo, forse si spreca meno tempo che al cinema, ma l’anima ne uscirà indubbiamente notevolmente arricchita): non solo proverà emozioni e “inquietudini” che il film non riesce minimamente a rianimare, ma comprenderà davvero che cosa intendeva rappresentare Matheson con la parola “leggenda” (in un mondo decimato dalla guerra atomica e popolato da larve ridotte al rango di vampiri, l’unico superstite vivente della vecchia civiltà, assurge inevitabilmente al rango di mostro lui stesso e si ribalta così, come in un celebre racconto di F. Brown intitolato “La sentinella”, la “prospettiva”). Potrà trovare così ancora intatte (le parole sono capaci di "vivificare" la fantasia più di ogni altra cosa) tutte le incertezze e il senso di disorientamento spiazzante necessario per “comprendere” fino in fondo e condividere la paura strisciante del "cacciatore" braccato, una sensazione questa così forte e pregnante nel libro, che purtroppo “latita” invece in sala, nonostante l’ingente spreco di capitale (ma solo di quello). Visto che la storia aveva già avuto due precedenti e non banali trasposizioni per lo schermo (entrambe decisamente superiori a questa nuova “fatica” se così vogliamo definirla) se il "giocattolone tecnologico" doveva poi rivelarsi così deludente, non si sentiva davvero il bisogno di una nuova rilettura ad alto budget produttivo così "approssimativa" e fuorviante (evidentemente finalizzata solo a “racimolare” incassi, fregandosene di tutto il resto, come dimostra persino la deprecabile sceneggiatura che quando diventa più "importante" e "necessaria" sovrapponendosi perentoriamente alle immagini, come accade appunto nella seconda parte, esprime inequivocabilmente tutta la sua inconsistenza e svela la sua “natura reale” che è poi quella di “essere stata organizzata" con i piedi più che con il cervello e l’ingegno, solo per dare una “trama” non importa quanto verosimile ed omogenea, a un innocuo “videogioco” privo di sostanza). Del resto il regista credo che potesse offrire davvero poche garanzie di “originalità” già sulla carta, visti i precedenti risultati per me abbastanza fallimentari (“Constantine” l’ho detestato, come si potrà chiaramente evincere dalla mia stroncatura inappellabile)…In effetti le uniche “emozioni” della parte iniziale sono attribuibili non certamente alle sue capacità,che rimangono fortemente dubbie ma semmai alla “bravura tecnica” di chi ha saputo così bene “animare” la desolazione “desertica” della città realisticamente inappuntabile e persino “sorprendente”, ma “chiaramente” irreale nella sua veridicità quasi unidimensionale da non riuscire a "coinvolgere" fino in fondo come sarebbe stato indispensabile (o forse sono io che non sono più in grado di far risvegliare il “fanciullino” che dovrebbe esistere - nonostante l’età - dentro di noi, sia pure nascosto da qualche parte?) così lontana e meno coinvolgente e “veritiera” non solo dalle “empatie” emozionali che creavano smarrimento ed incertezza in quella Roma (l’Eur e le sue geometrie lunari) fotografata senza trucchi e con poco più di tre lire (la “cornice” insostituibile e necessaria a creare smarrimento ed incertezza ansiogena) di quel piccolo cult davvero troppo poco “celebrato” rispetto ai suoi indiscussi “meriti”, che risponde al titolo de “L’ultimo uomo sulla terra” di Ragona con il grandioso Vincent Price (il primo che ha affrontato l’avventura, con risultati “visionari” di sorprendente presa, nonostante la scarsezza dei mezzi a disposizione), ma anche dalla successiva, meno fedele sopra citata pellicola di Sagal, più politicizzata e “predicatoria” (perfettamente allineata con le modalità rappresentative delle preoccupazioni e dei "pericoli" di quei tempi), già fortemente contaminata da elementi “esterni” (indubbiamente tendenti a una maggiore “spettacolarizzazione” del tema e dei sui sviluppi), che può essere considerata in effetti il “più diretto riferimento” per il film di Lawrence, ma molto più “ingegnosa”, carismatica e sorprendente, vivificata per altro da una splendente “fotografia” non artefatta e da una altrettanto stupefacente colonna sonora d’accompagnamento. Ma parlando di “città inanimate” inquietanti e minacciose, si potrebbero annoverare fra i risultati più disturbanti (e più efficaci) anche la Londra sporca, desolata e spettrale, quasi apocalittica di “28 giorni” di Danny Boyle o quella rappresentata da strade simili a inestricabili canyon di vetro e cemento, piene di rottami e manichini, di una Manhattan davvero surreale ostile e impalpabile di “The World, the Flesh and the Devil” – “La fine del mondo” in italiano – di Ranald MacDougall che, seppure ispirato a Shiel e alla sua “La nube purpurea”, trattava analoghe problematiche di sopravvivenza solitaria in un mondo ormai completamente annullato da un "evento catastrofico", ma con i “demoni” da combattere tutti annidati nella psiche deformata dalla nuova (ir)reale condizione di attoniti superstiti. Per tornare a questo “Io sono leggenda”, attuale immeritato campione d’incassi, disomogeneo e disequilibrato, per me poteva finire con la morte della cagna (l’unica scena davvero toccante e commovente) che conclude la parte migliore: tutto il resto è poi a mio avviso “più o meno” da dimenticare (con punte assolutamente “demenziali” nel secondo segmento, come l'improbabile doppiaggio “on line” sulla proiezione di Shrek, o il “pistolotto” su Marley in puro “stile Smith” - compresa la prestazione pseudo-canora che gli permette di gigioneggiare sfacciatamente – due concessioni assolutamente gratuite e persino “dannose”, avulse dal contesto e – purtropo – nemmeno ironiche). Quanto agli attori… meglio stendere un velo pietoso (anche perché a parte il “solito” Smith, ancora una volta in “offerta speciale” del “prendi due e paghi uno” (nel precedente film di Muccino, il figlio, qui la figlia: a quando l'intera fattoria?), più preoccupato a farsi notare per la sua prestanza fisica che per le sue doti interpretative, gli altri non avevano davvero molto da fare o da esprimere, compresi i mostri computerizzati e per questo anonimi e incolori). La migliore in campo, davvero, dovete credermi, è allora proprio l'animale che interpreta Samantha (sono altri qui che recitano da cani!!! come arbitrariamente si suol dire in gergo). In sintesi, ancora un’occasione perduta (almeno per quanto riguarda Matheson, che se non aveva approvato le arbitrarie intromissioni della sceneggiatura del film di Sagal che rimane in ogni caso uno dei capisaldi della fantascienza impegnata, si troverebbe indubbiamente ancor più amareggiato da questo “videogame” riduttivo e senza spessore.) La sua speranza (o aspirazione) che prima a poi qualcuno avrebbe trovato il modo e il coraggio per riprodurre in immagini la sua opera proprio così come lui l’aveva scritta,senza alcuna interpolazione msitificante, credo che a questo punto possa considerarsi definitivamente frustrata per non dire perduta o "defunta". Ormai evidentemente non ci sono più nemmeno le condizioni affinché ciò si realizzi.
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