Regia di Stefano Odoardi vedi scheda film
Sono sempre più convinto – e lo dico con molta amarezza - che il nostro “sistema cinema” (parlo di quello italiano) non sia in grado di riconoscere il vero talento, e ancor meno di valorizzare e dare occasioni giuste di lavoro a chi ha idee e capacità innovative da mettere al servizio di progetti che siano il linea con la propria vocazione “autorale” (il computer me lo censura e me lo sostituisce con “autoriale”: magari sarò anacronistico, ma preferisco usare la forma corretta che è la prima, e insisto a utilizzarla nonostante Google e la rete tutta) senza scendere a compromessi e piegarsi così - pur di lavorare - ai dictat produttivi imposti esclusivamente dal profitto che mortificano i risultati e li rendono sempre più omologati e conformi a se stessi.
Non risponde insomma a verità l’asserire che difettano da noi i nomi interessanti fra i registi di nuova generazione: di fatto ce ne sarebbero, eccome!!! Solo che nessuno è disponibile a prenderli in considerazione e chi si mette in gioco trova quasi sempre – salvo rarissime occasioni – pesanti porte che vengono loro sbattute in faccia (e in questo settore credo che la conseguente, inevitabile fuga dei cervelli sia cominciata molto tempo prima che in altri, perché per provare ad essere se stessi, per i più grintosi e determinati, non c’è altra soluzione che quella di emigrare altrove per farsi finalmente conoscere e apprezzare, soprattutto se si intendono seguire percorsi inconsueti e sperimentare differenti idee di rappresentazione attraverso linguaggi e forme che l'industria ha ormai “cassato” e abbandonato definitivamente all’oblio e all’incomprensione). Ci si deve insomma arrangiare e credo che sia molto dura: i mezzi di fortuna, la determinazione, il lavorare con a disposizione una piccola manciata di euro possono alla fine permettere di dare pratica attuazione a un progetto e di portare a compimento l’opera, ma poi?
Una volta per lo meno un abbastanza cospicuo numero di spettatori era dalla loro parte, adesso invece da quanto possiamo dedurre dai risultati di quel poco di pregevole che arriva davvero sui nostri schermi (parlo del ritorno economico ovviamente che è comunque un capitolo molto importante in campo cinematografico) non possono contare più nemmeno su quello: difficile, quasi impossibile intercettare l’utilizzatore finale in mancanza del quale pur con il suo valore, l’opera nasce morta e mortifica il suo creatore.
Tentare di capirne le ragioni, trovare nuove forme di promozione per risvegliare il pubblico dormiente, o imporre certe regole, sarebbero già degli inediti e concreti passi avanti che potrebbero aiutare a supportare i piccoli film indipendenti e “fuori schema” (quelli che bisogna davvero andarseli a cercare nei festival, nella rete, nelle notti insonni di “Fuori orario” o nelle sale più coraggiose e che non troveremo mai nei multiplex), altrimenti condannati non solo all’invisibilità da una distribuzione spesso “criminale” , ma anche a non essere mai presi in considerazione per un prime time tv.
E’ il caso di Leonardo di Costanzo (classe 1958), per esempio, che si è dovuto fare le ossa in giro per il mondo e che nonostante la sua fama di eccellente documentarista (con i suoi lavori ha vinto molti premi ai festival ai quali è stato invitato a partecipare), ha dovuto aspettare il 2012 e la non più verdissima età dei 54 anni per poter realizzare (di nuovo con non poche difficoltà e limitati fondi) un film importante come L’intervallo (suo primo lungometraggio di finzione e indiscutibilmente una delle più belle pellicole italiane uscite negli ultimi anni) passato con successo da Venezia ma poi, una volta arrivato in sala, visto da un numero davvero troppo esiguo di spettatori rispetto al suo valore, o quello ancor più emblematico di Roberto Minervini che ha dovuto “emigrare” negli Stati Uniti d’America per poter dare finalmente forma concreta alla sua vocazione artistica e cominciare così la sua bellissima avventura cinematografica che però non ha trovato poi nel nostro paese un adeguato spazio distributivo nonostante i passaggi e le attenzioni riservate alle sue pellicole dai più importanti festival cinematografici (alzi la mano chi è riuscito a vedere qui in Italia Voodoo Doll che risale ormai al lontano 2005, storia di un bambino sfregiato nell’anima dai tanti abusi subiti nella sua infanzia devastata che hanno finito per distruggere la sua identità e annullato ogni forma di autostima, e che in una estrema difesa della propria integrità violata, si trova ridotto a vivere nascondendo il volto dietro una maschera come in The Elephant Man). Visto invece sicuramente da qualcuno in più il suo Low Tide (2012) a Venezia due anni fa, ma poi restato lettera morta, e il successivo Stop the Poundig Heart, grandissimo successo al Festival di Cannes 2013 e forse fra i tre quello più facilmente recuperabile se qualcuno del pubblico, vincendo la pigrizia ormai diventata proverbiale, avrà voglia di cercarlo in giro o nella rete.
E’ stata questa anche la sorte toccata al da noi praticamente “sconosciuto” Stefano Odoardi (in questo caso è l’Olanda ad avergli dato una mano) autore di a Una ballata bianca, sua eccellente prima prova nel cinema a soggetto (dopo una importante e apprezzata gavetta fatta soprattutto nel segmento dei cortometraggii), che risale ormai a molti anni fa (il film è del 2007) che meriterebbe davvero di essere riscoperta e considerata per il suo valore.
Transitata con successo da alcuni festival, mi si dice che la pellicola è stata distribuita (naturalmente in sordina) anche qui in Italia (per lo meno sugli schermi di Roma, so per certo che fece una fugace apparizione nel mese di dicembre del 2007 appunto), per far perdere però subito dopo le sue tracce, fino a farla diventare una specie di Araba Fenice (che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa), e questo pur trattandosi di un esperimento visivo ed evocativo a mio avviso di straordinaria rilevanza anche “sperimentale” che fu a suo tempo definito da Mario Mazzetti “un oggetto filmico decisamente inconsueto per il nostro panorama, un esordio low budget intriso di atmosfere tarkovskiane” (e vi assicuro che l’accostamento è tutt’altro che azzardato).
Con i pochi soldi a disposizione, e con la sola forza delle idee infatti, Odoardi è riuscito a realizzare una pellicola davvero sorprendente a partire da un incipit onirico e avvolgente che rende subito palpitante la visione, a conferma che se si ha davvero un briciolo di talento da mettere in campo, si può fare un ottimo cinema semplicemente utilizzando la passione, l’impegno e la dedizione, qualità queste che il regista dimostra di avere in abbondanza.
Pur essendo tratto da un testo teatrale di Kees Roorda (autore anche della scarna, essenziale sceneggiatura scritta insieme allo stesso Odoardi), Una ballata bianca è tutt’altro che teatro filmato: ne mantiene forse l’andamento, ma per trasformarsi subito dopo in un cinema fortemente suggestivo e soprattutto “puro”.
A suo modo panteista (ma di un panteismo che potranno definire “naturalistico”), l’autore, pur trattando temi forti, ha il pregio di approcciarsi con rispetto e profonda compartecipazione, al dolore, piccolo o grande che sia, mettendo sullo stesso piano ciò che si può apprendere al riguardo sia dalla letteratura di qualità che dalle testimonianze quotidiane del vissuto, quasi a volerci ricordare che anch’esso, come la morte stessa è un elemento naturale dell’esistenza, e come tale deve essere affrontato e valutato..
Odoardi insomma, mettendo a frutto tutto il lavoro precedentemente svolto sia per comporre i sui densi “corti” (con i quali si è fatto apprezzare soprattutto all’estero) che per realizzare alcune altrettanto pregevoli installazioni d’arte, praticamente senza il supporto dei dialoghi che sono qui del tutto assenti (il commento parlato è limitato ad alcune riflessioni fuori campo), riesce comunque a tessere una trama di fortissima tensione emotiva che si sviluppa su una tela fatta soprattutto dalla prepotente qualità di immagini superbe che confermano pienamente il suo eccezionale talento figurativo. Immagini che vanno ben al di là della storia che sta alla base del racconto e che si concretizzano in alcune sequenze di immediata presa poetica (la cicogna, i girasoli, le foto nel barattolo), offerte con generosa disponibilità allo spettatore, ma lasciate interamente alla sua libera interpretazione: è infatti solo dello spettatore il compito (se vorrà e ne avrà voglia) di caricarle di un valore (anche metaforico) che è soltanto suggerito – ma con assoluta discrezione - dall’intensa atmosfera lirica che avvolge l’esile filigrana di una narrazione che si sviluppa appunto come una meditazione di grande fascinazione visiva.
Se vogliamo entrare nel merito della storia (importante, ma non fondamentale in un cinema che ha già nelle immagini la sua forza primaria, sufficiente per scandagliare in profondità l’anima dei sui personaggi che assommano in sé la delicatezza di un Cechov e le inquietudini di un Beckett), si fa davvero molto presto a sintetizzarla (nel senso che c’è davvero poco da dire, visto che si tratta di un film fatto di sensazioni e stati d’animo più che di accadimenti).
Qui – lo ribadisco con forza – a fare la differenza è infatti la qualità della forma che si estrinseca attraverso l’uso dei corpi e della luce, e utilizza un linguaggio così essenziale, immediato ieratico e suggestivo, che rimanda appunto – stilisticamente parlando - non solo al già citato Tarkovskij, ma anche a Bergman, e che, nel cinema odierno potrebbe davvero echeggiare per più di una ragione anche quello “inarrivabile” di Tsai Ming Liang (azzardo ancora di più dunque, sperando di non essere accusato per questo di blasfemia da qualche integralista del pensiero) fatte ovviamente salve le debite proporzioni e le evidenti differenze strutturali che ne distanziano non poco il risultato, anche perché Odoardi non è altrettanto geniale ed estremo, e in ogni caso ha anche molti meno fondi a disposizione per potersi mostrare paritario.
Entrando comunque un po’ più nel concreto, si tratta di fatto di un racconto intimo e privato che parla di un’affiatata coppia di anziani coniugi segnata dalla malattia terminale della moglie che potrebbe persino anticipare con minori frustrazioni, ma con analoga sofferenza interiore, l’odissea terminale della vita che sarà poi magistralmente messa in scena dal Haneke altrettanto dolente, essenziale e partecipativo di Amour . Ovviamente anche in questo caso il parallelo si esaurisce nelle apparenti analogie di alcune situazioni di fondo, poiché è poi molto differente la modalità di analisi della questione che in Odoardi credo si possa dire sia soprattutto quella di sperimentare un nuovo approccio lessicale (più immaginifico e poetico) che asciuga la parola e amplifica il prepotente fascino affabulatorio delle immagini, il che gli consente di utilizzare “al meglio” persino il limite di attori “casuali” che qui non stonano affatto, ma finiscono semmai per dare un contributo davvero “speciale” con il coinvolgimento empatico della “verità” di una resa che non annulla la finzione, ma la rende diversa e suggestiva.
Due anziani coniugi insomma che hanno l’autenticità dei volti non usurati e genuini dei suoi interpreti giustamente “non professionisti” (sappiamo che nella vita lui, quando fu scelto, era il calzolaio del regista e la corrispondenza del suo cognome con quello dell’interprete femminile, ci conferma che la lei del film era sua moglie anche nella vita) fotografati nel loro ambiente domestico nello scorrere lento di un’esistenza segnata dall’imminente arrivo di una dipartita che ne sconvolgerà inevitabilmente l’equilibrio (la donna, come ho già anticipato, è infatti gravemente ammalata e prossima a morire).
La trama è davvero tutta qui: una vecchia casa votata al silenzio abitata da una coppia senza più voce ma con un eccezionale bagaglio di ricordi che vengono dal passato, un sogno ricorrente con i suoi fantasmi, e il labile confine che separa la vita dalla morte con l’inesorabile scorrere del tempo che rende sempre più prossimo il momento del distacco. Qui insomma giovinezza e vecchiaia si incrociano, traslate in un racconto privo di retorica che parla di un matrimonio e di un amore mostrati con tocchi coraggiosi e singolari che rendono particolarmente interessante anche il suo filosofeggiare intorno ai grandi temi dell’esistenza.
A poco a poco, mentre li cogliamo intenti nello svolgimento dei loro piccoli e consueti gesti quotidiani, i loro pensieri – esternati attraverso le voci fuori campo di Sergio Fiorentini e Gordana Miletic – a volte talmente convergenti da assumere il senso di un accenno di dialogo virtuale, altre assolutamente autonomi e discordanti, riportano alla luce con nostalgia, dolcezza e senso del distacco, i ricordi felici e dolorosi del passato che si mischiano alle ansie del presente, mentre il loro silenzio (i due come si è già detto non si rivolgono mai direttamente la parola) rende quasi surreale quel loro vivere nell’appartamento come se abitassero due mondi paralleli e dove anche il contatto è latitante poiché non supera mai lo sfiorarsi casuale nei movimenti circoscritti dentro quello spazio angusto.
Un gioco (questo sì) molto teatrale ma nel senso alto della parola, che si esemplifica soprattutto in una serie di inquadrature fisse dove i due, sullo sfondo costante delle pareti della casa, si danno spesso le spalle, come se fossero entrambi in fuga da se stessi, o al contrario, subissero la sofferenza derivante dal comprendere l’inesorabilità della separazione imminente, inevitabile, definitiva e irreversibile.
Il finale (un’altra emblematica sequenza fortemente simbolica che apre le sue porte alla natura) è quello che ci riserva le immagini più suggestive: “La mia canzone al vento” canta e balla l’anziano vestito da cerimonia, esprimendo così alla fine, quando tutto si sta concludendo, ciò che a parole non era stato mai in grado di dire alla moglie in precedenza:
Sussurra il vento come quella sera,
vento d'aprile, di primavera,
che il volto le sfiorava in un sospiro
mentre il suo labbro ripeteva: giuro.
Tu passi lieve come una chimera,
vento d'aprile, di primavera.
Tu che lontano puoi sfiorarla ancora,
dille ch'io l'amo ed il cuor mio l'implora,
dille ch'io fremo dalla gelosia
solo al pensiero che la baci tu.
Ma pur l'amore è un vento di follia
che fugge come sei fuggita tu.
Ma anche l’uomo è ormai soltanto una labile reminiscenza ormai appassita della bellezza di un tempo che la vecchiaia ha reso quasi grottesca facendolo diventare una specie di ectoplasma di se stesso triste e sconfortato ma tutt’altro che privo di vigore. Accanto a lui adesso c’è solo una donna vestita di nero, forse la proiezione dell’amore perduto, ma più probabilmente (e in modo più credibile ed evidente), la morte stessa che si fa presenza attiva, poiché nelle immagini successive, ora che la moglie non c’è più, lo ritroviamo sconsolatamente solo, e in tutto questo c’è indubbiamente molta, sofferenza ma soprattutto tanta disperata nostalgia.
In un’opera di siffatta natura, la qualità della fotografia (di Tarek) è essenziale (e qui è davvero di straordinaria presa) insieme a quella di un montaggio (ancora opera di Tarek e dello stesso Odoardi) altrettanto fondamentale nel dover tenere insieme tutti i raccordi con l’afflato della poesia). Il tutto, coadiuvato egregiamente dalla bella colonna sonora di Carlo Crivelli e dalla prova “essenziale” (ma funzionale) dei volonterosi e irreprensibili interpreti: Nicola Lanci, Carmela Lanci e Simona Senzacqua.
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