Regia di Antonio Margheriti vedi scheda film
Margheriti prepara il terreno al successivo “...e Dio Disse a Caino” e abbozza con “Joko...” un western insolitamente gotico, in cui contano di più le atmosfere cupe e tristi che i solari deserti delle ramblas almerienses. Elementi gotici sono: la grande presenza della notte (anche se inferiore a quella del successivo film con Kinski), la lugubre caverna che in letteratura è il luogo amenus per eccellenza con anche varie interpretazioni sessuali, l’intro precedente ai titoli di testa, e la dimensione spettrale che acquistano i due protagonisti durante il confronto finale. Ma su tutti, l’elemento gotico maggiore è la presenza di Mendoza ovvero il grandissimo Claudio Camaso, alle anagrafe Claudio Volontè, fratello minore del mitico Gianmaria. Il suo spregevole personaggio ha a che vedere più col diavolo che con il bandito, e il suo look, che molti avvicinano giustamente al Baron Samedi dei riti voodoo, è un look che ce lo fa rimbalzare di netto alla Londra di fine ‘800. E mentre corre nei suoi sotteranei svolazzando il mantello, ci ricorda la figura dell’ambiguo Mr. Hyde, di cui Mendoza sembra un lontano fratello. Il suo doppio gioco infatti si rivela lo specchio deforme dal quale guardare ed intendere tutto il fim. Il regista inoltre, ha voluto tratteggiare il cattivo anche con connotazioni sessuali ambigue e perverse, ed ecco che la dimensione della caverna come luogo amenus si fa sempre più chiara. Il luogo della regressione primitiva porta i suoi protagonisti a indebolire le linee di confine tra lecito ed illecito, e soprattutto tra puro e perverso. Il covo di Mendoza è un piccolo regno diabolico, addobbato come una sala misteriosa uscito da un horror di Margheriti stesso, e tutto quello zolfo aiuta ad avvicinarne la figura a quella del Diavolo.
Con un cast buono, fatto di volti eccezionali (su tutti i caratteristi Pigozzi e Paolo Gozlino/Paul Stevens) Antonio Margheriti si fa il polso per l’horror-western, se così vogliamo chiamarlo, anche se elementi horrorifici puri mancano, come negli altri casi, ma a noi piace chiamarlo così conoscendo il valore artistico proprio del genere horror. Qui, come negli altri casi, gli elementi del terrore sono rimandati attraverso una loro simbologia, come per esempio la caverna e lo zolfo, i rintocchi dell’orologio. E poi, lo straordinario duello finale, in cui i duellanti sembrano due spettri, due morti che si sfidano grottescamente per ammazzarsi di nuovo, è una grande intuizione stilistica e narrativa che chiude un film atipico, come atipici erano gli stessi western all’italiana.
La chiusa finale spetta al volto di Claudio Camaso. Si legge che starebbe strizzando l’occhio allo spettatore come fosse un demonio, ma non va dimenticato che l’occhio aperto è lo stesso con cui il suo presonaggio fissava il sole attraverso una lente scura sentenziando “Una moneta da 1.000 Dollari...”.
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