Regia di Gianni Zanasi vedi scheda film
Il titolo viene da una franca e gentile esortazione che papà Teco Celio fa a suo figlio nel finale. Non ci pensare a noi, tu sai suonare, devi fare quello, non stare più qua. Il figlio torna nella capitale ma si accorge ben presto che il proprio posto nel mondo è altrove. Finisce con un’immagine sospesa, che non descriverò ovviamente, ma che ha proprio la leggera essenza della sospensione. Come se noi spettatori non dovessimo pensare al destino del protagonista, questo uomo di seconda mano un po’ sgualcito e un po’ disilluso, ma con una voglia innata di ribellarsi alla vita che si prende gioco di lui, candidato al fallimento sin dall’infanzia. Stefano Nardini è uno dei personaggi più teneri, sinceri ed umani degli ultimi anni, uno di quei tipi che sono migliori di come appaiono e di come la gente li disegna, tra una chiacchiera per il corso e una birra al pub. È un ruolo con cui Valerio Mastandrea coglie l’occasione per infilare la più bella interpretazione della sua carriera, che alla fine è anche un po’ simile alle nevrosi e alle dolcezze di Stefano.
Con un gusto leggiadro, Gianni Zanasi dimostra che una commedia diversa può esistere, che si può scrivere qualcosa di piccolo con un respiro universale, abbracciando un mondo (la provincia annoiata ma compiacente, fatta di persone che si conoscono da una vita loro malgrado) che è uguale ovunque, riuscendo a non emulare inutilmente il vitellonismo inimitabile di Fellini (siamo pur sempre a Rimini) e proponendo così altri caratteri (Luciano Scarpa con l’ossessione della morte, tanto per dirne una), altri quadretti (coi pattini dentro il centro commerciale chiuso, di notte), altre situazioni (il rapporto tra precarietà delle piccole impresi ed immobilità della politica-show). È un film “altro”, divertente ma anche congenitamente malinconico, come il volto pacioso ma stropicciato dell’eccellente Giuseppe Battiston, fratello represso e nevrotico, come gli occhi attenti ma spauriti di mamma Gisella Burinato, come la vita meccanica della piccola città. Attraversato da canzoni rock dello stesso genere che pratica Stefano, ha un guizzo commovente con l’esecuzione che un Mastandrea da brividi fa di un brano di Chopin di fronte a coloro che “ce l’hanno fatta”. Parla di famiglie allo sbando, di diversità non accettate, di amori incredibili, di voglia di ricominciare. E in quell’ultima scena si ritrova tutto questo, sospeso come a voler lasciare i conti aperti con la propria vita.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta