Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Quando si parla di Johnny Stecchino, si parla inevitabilmente di uno dei grandi classici del cinema italiano degli anni '90, nonché di uno dei film simbolo della carriera di Roberto Benigni. È uno di quei titoli che, anche a distanza di decenni, riesce a strappare una risata sincera, ma allo stesso tempo a far riflettere. Un film che si presta benissimo a una doppia lettura: da una parte la commedia leggera e surreale, dall’altra la critica pungente verso una certa Italia di quegli anni, divisa tra il sogno e l’incubo.
Johnny Stecchino è uscito nel 1991, in un’Italia ancora profondamente segnata da un decennio — gli anni ’80 — vissuto all’insegna dell’apparenza, dell’edonismo e di una felicità spesso costruita. E Benigni, con la sua comicità poetica e visionaria, riesce a mettere in scena proprio quel contrasto: da un lato Dante, ingenuo e puro come un bambino cresciuto troppo tardi, e dall’altro Johnny, il mafioso cinico, incarnazione del marcio nascosto dietro la facciata. Un doppio ruolo che Benigni affronta con maestria, muovendosi tra il grottesco e il malinconico con una naturalezza disarmante.
Già in questo film si intravedono le prime sfumature del Benigni più drammatico e profondo, quello che poi esploderà con potenza emotiva ne La vita è bella. La maschera comica inizia a mostrare delle crepe, lasciando filtrare la consapevolezza del dolore e dell’assurdo del mondo. E non è un caso che proprio Johnny Stecchino sia uno snodo cruciale nel suo percorso artistico.
Al fianco di Benigni c’è, come sempre, Nicoletta Braschi. Il loro sodalizio artistico è noto, e in questo film lei interpreta Maria, la donna che si muove tra le due identità del protagonista. Tuttavia, il suo personaggio è costruito su registri caricaturali che forse non valorizzano appieno le corde più sottili e raffinate della Braschi. È brava, come sempre, ma sembra un po’ costretta in un ruolo che le sta leggermente stretto.
Molto interessante anche la scelta delle location. Se da un lato abbiamo scorci che richiamano la Sicilia e i suoi stereotipi cinematografici — tra limoni, mafia e onore — dall’altro ci sono paesaggi urbani più spogli, come la periferia fiorentina, che mostrano un’Italia diversa, meno folkloristica e più industriale, quasi abbandonata. La fotografia gioca molto su questi contrasti e dona al film una profondità visiva che spesso si tende a sottovalutare.
Ma uno degli aspetti che rende davvero speciale Johnny Stecchino è il cast di contorno. Gli attori secondari, da Paolo Bonacelli a Ivano Marescotti, regalano interpretazioni indimenticabili, contribuendo a costruire un mondo surreale e perfettamente calibrato nei suoi eccessi. Ognuno con la sua maschera, ognuno con il suo piccolo delirio. È una galleria di tipi umani assurdi ma stranamente familiari, come solo la commedia all’italiana sa fare.
A distanza di più di trent’anni, rivedere Johnny Stecchino è come tornare a casa: si conoscono già le battute, si anticipano le gag, ma si ride ancora. Forse proprio perché sotto quella risata si nasconde qualcosa di più profondo, una malinconia gentile che parla della nostra società, delle sue contraddizioni e delle sue ipocrisie.
Se un film riesce, dopo tutto questo tempo, a intrattenere, a divertire e a far pensare, vuol dire che è stato fatto davvero bene. E Johnny Stecchino, con la sua dolce follia, ne è la prova.
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