Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Quando Indy incontra E.T. Spielberg ce l’ha fatta: ha commistionato le sue due più celebri ossessioni, la serie dell’archeologo avventuriero e gli alieni da “E.T.” a “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo”. Manca qualcosa di “Jurassic Park”, ma credo che tutte le “archeologie” del film possano valere in quel senso. Il film, come si erano prefissati fin dall’inizio, ricorda più il modo di fare film degli anni ’80, l’epoca del dottor Jones, che i nuovi filmoni tutto fumo e niente arrosto. L’avventura rocambolesca, piena di ironia e con un gran gusto plastico per cadute, piroette, esplosioni, salti, pugni e sparatorie è la stessa smagliante avventura dei tempi d’oro. Un’avventura molto slapstick che non concede nulla alle facilità visive di oggi: niente ipermontaggio, niente videoclip, niente patinature, niente inquadrature da serial televisivo, qui si torna a parlare il grande cinema d’avventura.
Negli ’80, Indy Jones incarnava il mito opposto dei Rocky e dei Rambo e dei Terminator che prolungavano ad Hollywood il braccio repubblicano di Washington. Anche pur non essendo dichiaratamente di sinistra (quella americana poi, che è tutto dire), Indy suscitava ben altri scenari e ben altre immaginazioni rispetto agli altri personaggi del decennio edonista. Purtroppo, questo quarto episodio, è diretto dallo Spielberg post-Schindler, che a me personalmente non piace e con cui ho ben poche idee da spartire: retorico, nazionalista, moralistico, accomodante. In più ci si è messo il Re Mida George Lucas a cui non andava mai bene un copione, come a Spielberg e a Ford. Il risultato sono una serie di infelici considerazioni sul comunismo, con un invito dello stesso Indiana a votare Eisenhowere. Ok l’ambientazione da guerra fredda, ma è tutto comunque molto ridicolo.
Per fortuna il film s’ha appagare con ciò per cui è nato: l’avventura. Non c’è scena che non diverta e che non appassioni. Tutto è votato al gioco avventuroso ed esotico (con il viaggio in aereo replicato sulla mappa come ai bei tempi), che oggi molti film, che per avventurosi si spacciano soltanto, non sono in grado di ricreare. Il digitale c’è, ma non troppo. Peccato per quei cani delle prateria e per quelle scimmiette rifatte in digitale che sono penose. Purtroppo il finale fantascientifico è qualcosa di orribile. Non per il contenuto in sé che è invece eccitante, ma per come è stato raccontato visivamente: troppo esagerato e troppo digitalizzato. Il momento migliore, il più ispirato è tutto quello legato all’arrivo delle gigantesche formiche rosse, che sembra il segmento di un bellissimo beast-horror, così come molto nero dalle tinte appunto orrorifiche è la sequenza al cimitero Maya, mentre il momento più simpatico è quello delle sabbie mobili. Ma tutto il film è decente, a parte il nauseante americanismo di fondo (strano che Spielberg non fa sventolare nessuna bandiera...), ed è grazie solo agli attori in grandissima forma che l’avventura non ruba la scena ai personaggi. La rediviva Karen Allen, la cattiva Cate Blanchett in versione dominatrice sadomaso, ma è un personaggio che in fondo non dice nulla se non esteticamente, il doppio-triplo giochista Ray Winstone che sostituisce Rhys-Davies, e Jim Broadbent che sostituisce l’insostituibile Marcus Brody. Su tutti però, ci sono loro: Harrison Ford perfetto, e Shia LeBouf che non solo gli tiene testa, ma si conferma il più grande attore della Mid-Generation. Una presenza scenica notevole, un’abilità fisico-espressiva che non ha rivali, ed in più è genuino, diretto, per nulla prefatto o artificioso. Lo stesso Ford è così vero, naturale, picaresco. Indiana Jones non può che essere lui, e lo ribadisce proprio a Shia LeBouf alla fine del film con un gesto inequivocabile.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta