Regia di Nadine Labaki vedi scheda film
La geografia del Libano. Belle e giovani donne, accanto ad anziane straccione, il traffico, i ferri vecchi e arrugginiti, vicino alla campagna dove le coppie consumano l’amore. E poi il caramello, che non è affatto dolce. Questo è il planisfero in cui ci si aggira, attraverso questa bellissima opera prima della regista ed interprete (è la padrona del parrucchiere) libanese, Nadine Labaki, che nel bene e nel male rappresenterà il suo paese ai prossimi Oscar. A soli 33 anni.
Il titolo fa riferimento alla tipica ceretta per la depilazione, che si usa in Medio Oriente, una miscela di zucchero, limone e acqua, che portata ad ebollizione, si trasforma in caramello. Un impasto che sa di dolce, ma che per l’occasione è assolutamente ‘amaro’, brucia e può far male. E’ su tale dualismo che ruota un film corale, tutto al femminile, molto almodovariano, non solo per la mancanza degli ingombranti uomini di cui il film è quasi privo o, dove ci sono, si tende a nasconderli, piuttosto per le ambientazioni, il ruolo delle donne-madri-vedove, oltre che per il microcosmo colorato e variopinto, che caratterizza, specie i luoghi chiusi.
Amiche-nemiche, sorella-fratello, etero-lesbo, vergini-violate, ma tutte sull’orlo di una crisi di nervi. Attendono, lottano senza riserve in una capitale libanese ferita ed immersa in una canicola primordiale, in cui il sacro incontra il profano, la carne la purezza della spiritualità, la religione é strumento di convivenza. L’utopia reale.
Davanti e dietro la macchina da presa, con un cast quasi tutto di attori non professionisti, la bellissima regista conferisce a tutto il film quella maestria che solo uno sguardo femminile sanno dare. La sua camera (per lo più a mano) è una presenza complice per ogni donna che si aggira per le strade di Beirut. E si tratta di uno sguardo assolutamente nuovo, visto che non è il solito film mediorientale che racconta solo la guerra (anzi, di questa nemmeno l’ombra), ma la quotidianità. Per cui, tra la mondanità dei rifacimenti del viso e non solo, passando anche per le depilazioni, tra matrimoni e cene, appuntamenti e attese vane, emerge una Beirut vitale, che fa piovere dal cielo cacche di piccioni, ma che tanto s’assomigliano a liquido seminale, che feconda e rende fertile una terra che mostra sempre più segni di voglia di cambiare. A tal proposito, anche il taglio dei capelli e l’eliminazione della peluria, cos’altro é: se non il desiderio di espropriare ciò che ormai è frutto solo di un regresso culturale, sociale e religioso.
Anche la colonna sonora è degna delle immagini, non fosse altro per lo stesso autore, Khaled Mouzanar, ch’è il marito della regista. Tutto, perciò, appare veritiero. Si ha come la sensazione di ascoltare, udire, avvertire gli odori di una città che oggi è realmente cambiata. Infatti, per tragica ironia del destino, dopo solo una settimana dalla fine delle riprese, il 2 luglio del 2006, Beirut si è nuovamente trovata sotto le bombe ed il film è così diventato un messaggio di speranza e di ribellione al conflitto. Un inizio d’anno, almeno al cinema, che promette bene.
Giancarlo Visitilli
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