Regia di Tamara Jenkins vedi scheda film
L’America si guarda. C’è una sottile linea rossa che unisce le produzioni cinematografiche recenti. Come se dovesse elaborare un lutto lungo una generazione intera, quella di figli in guerra con i propri padri. La famiglia è prepotentemente alla ribalta, sventrata e fotografata con distacco partecipato come fosse un’ autopsia di alieni precipitati sulla terra. La famiglia Savage ne è un esempio, Tamara Jenkins dirige i sontuosi Laura Finney e Philip Seymour Hoffmann con Philip Bosco, in una piccola storia comune di normali loser inconsapevoli di esserlo, quotidiani assassini delle proprie vite. Esausti assassini delle vite altrui. E’ un pezzo di teatro, questo film, triste e malinconico con inaspettate sferzate di ironia e sorprendenti dolcezze. Non a caso i due protagonisti, fratello e sorella, sono autori di teatro lei e professore di teatro lui. Teatranti in bilico tra non scelte e la consapevolezza della fine. La fine che puzza di piscio e di merda. Di follia mista a disperazione, e a spiazzanti momenti di lucida consapevolezza del loro padre, malato di demenza senile che irrompe nelle loro vite dimentiche a ribadire la caducità dell’esistenza. Il film ha il grandissimo pregio di non essere patetico, di rifuggire qualsiasi retorica affrontando un tema così delicato e anti cinematografico, con un equilibrio sorprendente. Tagliato di tutto il superfluo, La famiglia Savage si rivela nella regia mai ridondante, nella fotografia evocativa e nostalgica delle città in inverno e dei cuori dolenti che le abitano e nell’espressività degli attori, nella sconfitta fisicità di Hoffmann e nella fragile dolcezza della Finney, come un secco spaccato di una famiglia alle prese con l’elaborazione più che del lutto che ha da venire, del coma profondo in cui le loro vite riversano. Deriva sentimentale, insoddisfazione cronica, inadeguatezza alla vita sgorgano con le lacrime in una frustrante consapevolezza di fallimento che il cinismo e le cattiverie acuiscono e l’inevitabilità della fine ribadisce come essere l’unica opzione possibile. Così la morte è morte, inevitabile, la morte del padre è sradicamento totale delle radici, consapevolezza di essere completamente soli così come la morte della pianta è l’immobile fotografia del fallimento, la perdita di un qualcosa di vivente che aveva solo bisogno di un po’ d’acqua. Come le persone hanno bisogno d’amore e i due fratelli si accorgono troppo tardi di quanto non ne abbiano dato al padre morente e attonito nella malattia,da renderli praticamente degli sconosciuti ai suoi occhi. Gli uomini non si riconoscono più, selvaggi in una vita che assomiglia ad una giungla senza punti di riferimento, seguono sfiniti la corrente che li porta alla fine senza reagire. Paradossalmente il vecchio morente, nei suoi momenti di lucidità è molto più brillante e ironico dei due figli, è l’America del passato quella di una generazione fa, che non riconosce più i selvaggi (Savage) che ha di fronte, li sfotte, li deride, li ignora e muore. Scrivere frasi oscene con la merda sui muri del bagno è l’atto estremo di ribellione, il reclamare ultimo alla vita, un gesto potente. I figli non capiscono, cincischiano. Non amano o amano troppo poco ingabbiati nelle case oscure, silenziose, ingombre di libri, impegnate da animali o da fidanzati già sposati che non rappresentano alcun futuro. Vite già tumulate che si riprendono e risorgono in un finale di moderata speranza, questo è il risultato dell'elaborazione del lutto. Una scossa, una presa di posizione, una scelta. Amori che riprendono (forse) a vivere, vite che (forse) ripartono. Aperture verso l’aria. Lei lascia il fitness alla televisione per il jogging sul lago. Il suo cane la segue, salvato da morte certa, almeno lui frutto di una scelta finalmente sensata. L’America si guarda dentro, caduta dopo l’11 settembre, come in un’autopsia di un alieno e si scopre un po’ più umana.
Bellissimo, intenso e commovente ma anche spiazzante, La famiglia Savage è un piccolo grande film da vedere assolutamente in lingua originale. Laura Finney candidata all’Oscar.
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