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Garage

Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film

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La recensione su Garage

di (spopola) 1726792
8 stelle

lo sguardo del regista è disilluso ma tenero, la sua mano leggera e piena di annotazioni tutt’altro che secondarie. Una ricognizione sul disagio e sulla diversità di straordinaria pregnanza ambientata In un’Irlanda rurale isolata e desolata fra rotaie inutilizzate, stazioni di servizio poco frequentate e strade secondarie di scarso scorrimento.

Ci ha messo due anni ad arrivare sui nostri schermi, nonostante la vittoria al primo Torino Film festival della breve stagione Morettiana, questo piccolo grande film minimalista e scarno che ha i suoi punti di forza in una sceneggiatura essenziale e senza sbavature, in una regia “limpida” e all’apparenza “disadorna” (quasi Bressoniana per alcuni aspetti, se mi si passa l’accostamento) di Lenny Abrahamson che non indulge a compiacimenti inutili, asciugata da eccessi o forzature verso l’effetto fine a se stesso, ma al tempo stesso “acuminata” come una lama, che con pochi tratti “scolpisce” tragedie e solitudini infinite, ma senza pietismi o improduttive commiserazioni, oltre che in una resa recitativa di ottimo livello di ogni componente del variegato quadro di contorno, che diventa straordinariamente “talentosa” nel protagonista, Pat Shott (anche qui senza sottolineature gigionesche, ma semplicemente con la naturale introspezione dell’intelligenza di un attore di “razza superiore” che “penetra” il personaggio e lo rappresenta come meglio non sarebbe possibile fare, attraverso una gamma particolarmente sfaccettata di emozionalità di straordinaria pregnanza: “inconsapevole”, allucinato, disponibile, generoso e accogliente al tempo stesso, persino teneramente comico in alcuni momenti di amorevole altruismo, un “umiliato e offeso” da antologia insomma, ma non pedissequamente conforme alla norma, poiché il disegno è efficace e veritiero, ma molto lontano dalla caratterizzazione crudele del “classico scemo del villaggio” di ordinaria amministrazione. Una “rivelazione” davvero importante questa tardiva scoperta (ma solo per il pubblico internazionale immagino, poiché la sua età anagrafica,e le qualità indiscusse che lo rendono capace con una naturalezza disarmante di fare diventare una sola cosa “attore” e personaggio, la dicono lunga sul suo percorso di interprete e sarebbe interessante poter analizzare il dettaglio del suo lavoro formativo in scena, perché le sorprese in positivo credo che potrebbero essere parecchie).
 Per tornare al film, diciamo subito che lo sguardo di Abrahamson è disilluso ma tenero, la sua mano leggera ma densa di annotazioni significativamente piene di connotati tutt’altro che secondari. La sua, potremmo definirla insomma come una ricognizione sul disagio e sulla diversità “non conformizzata” (ne incrociamo molte di tipicizzazioni di questa natura nel percorso narrativo) che è di straordinaria pregnanza, come la suburbana ambientazione (una isolata, desolante e desolata Irlanda rurale che è la cornice ideale per queste solitudini incrociate) fra rotaie inutilizzate, stazioni di servizio poco frequentate e strade secondarie di scarso scorrimento.
Il centro del racconto è rappresentato da Josie e dalla sua “umanità” controcorrente, che gli abitanti del villaggio considerano un mansueto idiota dall’intelligenza ritardata, ma innocuo e inoffensivo. Da sempre l’uomo trascina la sua vita sconsolata ma a suo modo felice, tra la pompa di benzina dove lavora, qualche saltuaria visita in città, e le serate al pub fra le solite facce (dove spesso viene dileggiato dalla prepotenza del macho di turno, fra l’indifferenza generale di chi si diverte a ridere della sua disarmante ingenuità).
Tutto monotono, uniforme e senza scosse nella “terrorizzante” quotidianità a suo modo anche “violenta”, di altrettante dolorose “sopraffazioni” che diventano (o sono utilizzate) quasi come una valvola di sfogo per le altrui frustrazioni (e le allusioni allegoriche disseminate nel tracciato sono frequenti e fortemente “illuminanti”). L’arrivo di David, un adolescente chiamato a dargli una mano nel lavoro di fine settimana, sarà l’elemento che romperà l’equilibrio, non tanto perché accade davvero qualcosa di così disturbante, ma per le interpretazioni che vengono attribuite a un fatto che è solo legato alla ingenua volontà di creare un rapporto di compartecipe amicizia con uno che per lui è un pari, non un minorenne.
E il finale purtroppo non sarà né accomodante né consolatorio anche se pudicamente trattenuto dall’esibizione plateale che avrebbe potuto guastare l’equilibrio (e che fortunatamente il regista controlla facendoci solo “percepire” sottotraccia gli accadimenti e le conclusioni). Un recupero importante, persino necessario dunque quello di quest’opera lenta e disadorna, che giustamente si è imposta nonostante la mancanza di nomi altisonanti, di effetti speciali e di budget cospicui (se non quello delle idee) alla attenzione della critica, oltre che a riuscire a rastrellare altrettanti importanti riconoscimenti in numerosi festival internazionali e – vivaddio – persino ad assicurarsi una distribuzione (seppure fortemente ritardata) in un mercato poco attento come il nostro a queste “piccole grandi opere”. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire!!!.
La sintesi più giusta per concludere il discorso, mi sembra comunque proprio quella che ne fa Enrica Re su Film Tv: “Garage, con i suoi toni non dimessi ma mai gridati eppure convincenti, vuole essere (…) un inno alla diversità, alla bellezza dell’imperfezione e all’unicità di tutto ciò che di razza non è” (e chi ha visto i film può facilmente capire l’antifona) perché spesso è proprio lì che si annidano sentimento e altruismo, qualità così carenti nella contemporaneità “votata” alla perfettibile bellezza dell’apparenza omologata, ma non per questo meno importanti e necessarie.

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