Regia di Jean Becker vedi scheda film
Che dire. Non ci sono aggettivi per definire oggetti come questo. Pessimo, non rende l’idea. Mortale, forse. Oppure un aggettivo criptico che piace tanto ai cinefili militanti: didascalico. Inutile, è qualcosa che si avvicina al senso ultimo dell’opera. Opera semidocumentaristica sulle vicissitudine bucolico-lenitive di due personaggi ciarlieri e pedanti che rimembrano il tempo che fu sottolineando il loro miserrimo presente con moralismo d’accatto e populista. Si stava meglio quando si stava peggio. Non ci sono più le mezze stagioni. Sceneggiatura scritta con l’ardore dei pensionati al CRAL delle ferrovie che attendono di morire e litigano su un carico a bastoni lasciato ad un due di coppe. Lui, Daniel Auteuil, è il pittore in crisi, sull’orlo del divorzio, un tantino cinico e amorale quanto basta per materializzare alla sua presenza l’angelo dei mediocri ,Jean Pierre Darroussin giardiniere, carico di sguardi di commiserazione, la nemesi della vita stessa, così buono di buonismo, così piantato dritto nella terra della morale e cresciuto moralista. E tutto va, berciando berciando di tic, quotidianità, banalità assortite, amori e disamori, fedeltà e infedeltà, famiglia fede e lavoro. Mancano nella pletora degli argomenti trattati e spiattellati sullo schermo, la questione palestinese e l’annoso problema del buco dell’ozono, ma forse se ci faranno un seguito si parlerà anche di quello. Il giardiniere insegnerà al pittore egoista a prendersi cura delle persone con la metafora agreste dell’orto che cresce rigoglioso se curato con amore. Il tutto in due ore di continuo, insistente, parlare a vuoto in uno sterile esercizio di teatro filmato lasciato allo sbando di una regia nulla, affogato in una messa in scena sterile, senza cura o ricerca alcuna. Tedioso e ricattatorio nella ricerca smaccata della commozione tirata fuori a forza, assolutamente patetico, Il mio amico giardiniere si colloca tra i peggiori film degli ultimi anni, forte di una presuntuosa banalità verbosa travestita da verismo dialettico che sfrutta la tradizione delle sagaci commedie francesi mancando clamorosamente negli stilemi che le contraddistinguono: brio nella messa in scena, ritmo nella regia, intelligenza, dialoghi di acuto umorismo e salvifico non prendersi sul serio, caratteristiche che vengono sacrificate sull’altare del ricattatorio finale affogato nel buonismo più trito e inverosimile. La scena della carpa e della sua cattura, che nelle intenzioni è la scena madre e chiave risolutiva dell’intero film, mutuando da essa oscuri simbolismi filosofico-esistenziali, è la scena scult dell’anno, recitata talemente male, talmente rozza da chiedersi se in realtà non fosse un guizzo di surrealismo applicato al vuoto pneumatico. Non si sa. Il film si chiude sui dipinti del pittore che dopo la morte dell’amico giardiniere dipinge gli oggetti a lui cari. E i quadri fanno pietà. Dispiace vedere due ottimi attori perdersi in questi melensi radiodrammi dalla profondità di una soap di medio pomeriggio, è inconcepibile che una tale accozzaglia di nulla filmato senza una minima idea di cinema, trovi distribuzione o anche solo il coraggio di una visione collettiva. Eppure, tra le duecento persone in sala, una sala d’essai con un pubblico fedele (per fortuna) che comunque va a vedere qualsiasi cosa quel cinema proponga, coglievo a fior di labbra commenti positivi, qualcuno entusiasta. Mi stupivo degli occhi lucidi, dei cuori in inverno cinematografico ormai diseducati a qualsiasi capacità di critica. Si parla tanto della crisi del cinema. Credo che in profonda crisi prima di tutto ci sia lo spettatore, ma questa è un’altra storia.
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