Regia di Benedek Fliegauf vedi scheda film
Radiografia del non-essere. Insinuanti onde elettromagnetiche, come sussurrano nello spazio infinito, bisbigliano l'assenza in qualunque situazione, nell'umanità andata perduta. La dipendenza dalle droghe ha assunto proporzioni metafisiche, è rimedio non consigliabile all'arido vero, è il sostituire un vuoto con un vuoto, in cui la sofferenza finalmente si identifica con un sentimento umano. La ricerca dell'umanità attraverso il dolore, il non-essere ci priva di luminose empatie, ci assorbe nei fantasmi di esseri evanescenti, ci immobilizza in un confronto costante con l'inerzia del non vivente, con l'indifferenza del contesto. Luoghi indefiniti, in cui l'Apocalisse non è attesa, ma è continua, dura finché il nulla permane. Fliegauf circonda i suoi relitti ipnotizzando, ma senza recare nulla, suggerendo il vuoto assoluto, abbassando la carica spettacolare a zero, riscontrando nel vizio della droga l'abilità massima dell'essere umano a lottare contro la freddezza statica. Eppur si muove, la mdp non sta mai ferma, incapace di librarsi e di comunicare compassione, ma sempre volutamente presente, e scruta sguardi. Il vuoto dello sfondo, palazzi sempre uguali, e il vuoto degli occhi, primi piani sgradevoli. Haneke apprezzerebbe, Tarr è onnipresente: gelo che si trasmette dall'altra parte dello schermo, in cui stiamo silenziosi e pensierosi ad osservare. E' l'ipnosi per farci esperire la morte, il non-essere. Non esiste più spazio per i valori, né famiglia, né amore, né lutto, tutto è distante ed è vissuto o in maniera superstiziosa, come vizio non meno grave dell'eroina per via endovenosa, o in maniera scettica, distruggendo l'energia che starebbe fra gli esseri umani. Dealer fa pensare ai momenti in cui non facciamo nulla, sbarriamo gli occhi su qualcosa di poco interessante e ce ne facciamo ipnotizzare senza alcuna ragione, non perché quella cosa ci arricchisca, non perché quella cosa ci serva. L'uomo tende all'insignificante, pedala come il protagonista tra fantasmi di frammentata vitalità, si disperde sfiorando pozzanghere riflettenti, vive perché soffre. La sofferenza è necessaria all'esistenza, non se ne può scindere, l'esistenza si nutre di sofferenza. Si pedala in un circolo vizioso, la sofferenza si rende palpabile, ma esiste a prescindere o siamo noi portatori di un peccato originale? Il risultato è sempre lo stesso: incomprensione, lo stare fermi. E se ci muoviamo, in sequenze agghiaccianti, distruggiamo (il parabrezza della nostra macchina), corriamo tenendo un senso appeso a un filo (madre, padre e carrozzina che scappano per la foresta), ricordiamo un passato così tanto da togliergli significanto ("Papà, mamma, papà, mamma, papà, mamma", morti). Sgraziate e sgradevoli carnalità, occhi protesi nel vuoto, nell'incessante ripetersi delle immagini che vedono la propria infanzia (che gioca a basket), e che la salutano perché distante dall'attuale deperire. Ci muoviamo sempre allo stesso modo, nelle immagini in cui le teste si privano di dignità, non vengono osservate ma sono guidate da un corpo che prosegue in un moto inutile. Le case sono tutte uguali, fredde dimore apatiche, in cui non ci si può aggrappare ad alcun tipo di memoria felice, perché è tutto filtrato nella freddezza di una cornice dannatamente presente o dei contorni di uno schermo disturbato. E' come se tutto finisse di esistere, si risucchiasse nel buio, e la luce di un Sole finto, che nel film è sempre assente ma che alla fine è unica fonte di luce, dichiara il canto luttuoso dell'essere (umano).
Fliegauf, compiaciuto ma sicuro, nella lunghezza spropositata di Dealer, dimostra che non c'è bisogno della rabbia psichedelica di Requiem for a Dream, del disgustoso edificante di Christiane F. e dell'intento puramente narrativo seppur ottimo dei Pusher di Refn. La droga è l'aria che respiriamo, e non ci provoca più allucinazioni, perché quelle già sarebbero palpabile consolazione: sapremmo di esistere. Satantango, abbiamo finito, siamo inerzia vuota, ciò che ci circonda è il nulla e niente più.
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