Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film
È nel tragico determinismo della povertà che affiora il melodramma verghiano, in cui le ingiustizie sociali si fanno cronaca, e poi letteratura attraverso una stilizzazione dell’uso della lingua e dell’ambiente; allo stesso modo, Visconti filtra il tessuto veristico dei Malavoglia con la tragedia greca e una teatralità esibita che illuminano di vigore drammatico La terra trema e rendono cinema materiale che poteva rimanere solo realistico e documentario. Perché un film è questione di sguardi e di distanze, di narrazione che si fa stile e imprime un senso al reale impresso su pellicola. Rosso malpelo diventa allora un metafilm che, partendo dall’ambientazione nei luoghi che racconta (le zolfatare siciliane, ora Parco minerario Floristella-Grottacalda) assume su di se il determinismo imposto dalla produzione, fa della propria povertà una cifra in cui riconoscersi e attraverso cui raccontare le vicende della novella di Verga cercando l’adesione alla lingua e al contesto, pur non rinunciando a voler fare del film un appello senza tempo a tutti gli sfruttati. È un film povero sulla difficoltà di emanciparsi dai condizionamenti sociali ed economici, dalle superstizioni e dall’incultura. E gli anacronismi evidenti, negli oggetti di scena e negli sfondi paesani, sembrano rimandare all’imperitura validità dell’assunto, ad un ritratto che non si vuole circoscritto ad un unico e univoco ambiente, che aspira - come denuncia il cartello iniziale - ad essere astratto ed paradigmatico appello contro le ingiustizie e gli abusi, aiutato anche da inserti musicali lontani dall’epoca narrata che creano salutari fratture dall’immedesimazione. Nemmeno l’interpretazione, discontinua, di attori che non paiono professionisti, permette la completa adesione al narrato, imponendo una distanza in cui si vuole inserire la riflessione, accentuata da una certa frontalità della macchina da presa e da una teatralità della disposizione in campo, la cui visione unitaria viene fratturata da alcune inquadrature più ravvicinate. Luci naturali diffuse nei campi lunghi si oppongono a forti fonti luminose univoche negli interni o in notturna, con tagli netti nella divisione tra chiari e scuri che sembra rimandare ad una decisa e invalicabile separazione di censo. Il film non guarda ai nudi corpi con la luce vellutata di Grimaldi ne La discesa di Aclà a Floristella, pur riprendendone l’ambientazione, e accenna ad abusi su minori che non sono soltanto lavorativi; la denuncia politica lo pervade, ma non si impone, sebbene il proprietario della miniera sia un profittatore, vagamente decadente per la passione per il teatro, che non esita a porre le mani in grembo alle ragazze distraendole con i dolci, mentre offre minime mance per lavori di evidente pericolosità, ma senza la grandeur dei fascisti di Novecento. Eppure, le buone intenzioni non redimono il film da una difficoltà di impasto tra onestà dello sguardo ed efficacia cinematografica, nell’imprecisa distanza tra la registrazione dell’azione messa in scena e la sua resa drammaturgica. L’implicazione dell’autore sembra risolversi nella scelta di luoghi e di fatti, nell’uso della stretta lingua siciliana e delle parole del pretesto letterario, in una moderna riedizione del neorealismo ma non nella puntuale costruzione dell’emozione, che dovrebbe trasportare il senso verso il suo palesamento. Senza dettagli o primissimi piani ma alternando quasi solo figure intere e inquadrature panoramiche, il film non si cura di portare lo sguardo dentro alla carne del racconto, non ne evidenzia la portata emozionale, che rimane latente. Scimeca non sceglie un punto di vista e, pur seguendo Pinuzzo, il Rosso Malpelo, non si adegua all’altezza della sua statura, né fisica né morale. Lo guarda muoversi in circostanze avverse, in un mondo ingiusto e implacabile, ma non gli si avvicina per non rischiare il melodramma. Ne risulta una distanza insormontabile tra ciò che si mostra e ciò che si vorrebbe provocare, scegliendo sempre una medietà che rischia l’indifferenza più dello straniamento. Le crepe della consuetudine narrativa, nei salti di continuità, nelle citazioni alla Truffaut (il divertimento infantile della giostra), nel dissesto degli assi dello sguardo dei campi e dei controcampi, non sembrano mirare esclusivamente ad un salutare effetto sussultorio di incrinatura del realismo e, se paiono derivare dai condizionamenti delle riprese, sfociano anche nella difficoltà di trasformare i limiti in stimoli, i difetti in stile ed estetica. Così, nello sguardo finale del Rosso, che torna in miniera a scavare dove sa di dover morire ripetendo il gesto del padre all’inizio, si instaura una stanca rassegnazione alla sequela di “cose tinte” che tocca vivere e vedere, che abdica all’orgoglio e sceglie una pavida pace, ben lungi, ad esempio, dalle parole di fuoco e dall’eclisse metaforica del protagonista con cui termina Furore di John Ford. Il Rosso si arrende all’ingiustizia sociale e l’affronta con la dignità del condannato, sfidando silenziosamente gli altri a fare altrettanto o a fare qualcosa per cambiare. Di più lui non ha potuto.
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