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Rosso Malpelo

Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film

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La recensione su Rosso Malpelo

di scapigliato
8 stelle

Potere del cinema, della letteratura, della narrazione. Potere dell’arte tutta, quello di essere attuale e di rinviare sempre a più testi precedenti in una continua intertestualità con il presente e con il passato: conferma della validità dell’approccio critico tematico come metodologia di analisi di un’opera. È quello che succede con il Rosso Malpelo di Pasquale Scimeca, tratto dall’omonima novella di Giovanni Verga pubblicata nel 1880, diretto nel 2007 ed ambientato in un altrieri che non è né la Sicilia ottocentesca né quella odierna, ma ugualmente attuale ed eticamente contemporanea: basti ricordare le felici parole di José Mujica a Córdoba nel settembre 2015: “No vinimos a este mundo solo a trabajar y comprar; vinimos a vivir. La vida es un milagro; la vida es un regalo. Y solo tenemos una”. Nel Rosso Malpelo di Scimeca, frammischiato con Shakespeare, il ritratto di costume locale e il dramma di denuncia, la morte del padre del protagonista è il punto di partenza per un’altra maledizione verghiana, quella della “roba”. Morendo per colpa dei soldi, il padre innesca una reazione animalesca nella ricerca ossessiva del capitale.

Com’è noto, l’incontro con lo sfortunato “Ranocchio” provoca in Rosso Malpelo un contrastato sentimento di odio e amore: lo maltratta sul lavoro e allo stesso tempo lo difende e aiuta nell’animalesco contesto dello sfruttamento minorile in miniera: bambini che lavorano come asini, che s’accalcano come vacche e che dormono tra loro come cani, rubandosi il pane appena possibile. L’istinto di sopravvivenza non è più un fattore positivista e auspicabile, perché declinato nella lotta impari tra poveri. Come nella novella verghiana, anche in Scimeca il taglio naturalistico non risparmia niente e nessuno: il lavoro, la povertà, la cattiveria, la fame, gli abusi dei capoccia e degli ingegneri generano nello strato più povero e ignorante una guerra lupesca e famelica che li uccide.

Lo sguardo di Scimeca è però anche uno sguardo magico e sa evocare, complice la messa in scena tra il teatrale e l’espressionista, un realismo di percezioni e sensibilità diverse, soprattutto quando affida la scena al giovane protagonista. Diviso tra ferocia animalesca e affetto fraterno, il “malarnese” di Scimeca reinterpreta ambiente e testo trasfigurando l’umanità che tanto andava cantando Verga ai suoi tempi.

Centrale nell'intenzione politica del film è la scena in cui un minatore afferra l’ingegnere per il bavero e lo strattona con odio e occhi iniettati di sangue, senza proferire parole: ribellione e dignità. Lo scarto umano tra il padrone e le bestie sta nella dignità. La diastratica è dopotutto il dispositivo narrativo più usato in tutto il film e non poteva che catalizzare il triste finale, quando il “caruso” si inabissa nella sua ultima descensus ad inferos accompagnato solo dal suo cane. Non disperiamo però, perché Rosso Malpelo non tarderà molto a trasformarsi in Ciàula e a scoprire poi la luna.

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