Regia di Fabrizio Bentivoglio vedi scheda film
Gran bell'esordio da regista di una delle facce d'attore piu' note del cinema italiano (anche se le cronache parlano di un suo mediometraggio intitolato "Tipota" che risale al 1999 e che credo ben pochi abbiano avuto occasione di vedere). Un film che racconta un'epopea, quella degli anni '70 e di chi in quegli anni dedicava la propria vita alla musica. Il fatto (apparentemente) curioso è che Bentivoglio non racconta sè stesso ma mette in scena dei racconti autobiografici nati dalla mente (e dalle esperienze di vita) di Fausto Mesolella, chitarrista degli Avion Travel, gruppo col quale Fabrizio ha da tempo stretto un sodalizio artistico che li ha anche visti cimentarsi assieme sui palcoscenici di mezza Italia. Queste storie degli anni 70 (precisamente si parte dall'estate del 1976) si svolgono tra realtà ed atmosfere sospese, quasi fiabesche, producendo un effetto maliconico seducente e profondo. Quei giorni lontani sono pervasi da un senso di incertezza, ed è quasi naturale essendo da sempre il mestiere dell'artista uno dei piu' esposti al segno della precarietà. Infatti tante sono le promesse disattese nel film: dagli orchestrali non pagati ai contratti mai fissati, dagli appuntamenti non onorati ai personaggi che improvvisamente scompaiono senza lasciare tracce. Eppure, in tutto questo svanire di ogni progetto, il giovane protagonista Faustino, rappresenta la continuità, lui che non si capacita di tutto questo franare di speranze, e che continua a sognare l'impossibile (vedi l'ultima sequenza). Bentivoglio mette in scena una incredibilmente riuscita galleria di perdenti; dal cantante sfigato che si ricicla in improbabile crooner al demenziale bidello-maestro (interpretati, questi ultimi, dai due fratelli Servillo, uno piu' bravo dell'altro)...dall'impresario cialtronesco impersonato dall'ottimo Ernesto Mahieux con toni agri e grotteschi che ne definiscono la vocazione al fallimento, fino a una Valeria Golino donna fatale benchè provincialissima sciampista consapevole di essere l'oggetto del desiderio degli sguardi maschili. E veniamo ai due protagonisti. Bentivoglio si ritaglia un ruolo che, per quanto ammantato di carisma un pò cialtronesco, rivela anch'esso le stigmate del perdente, dietro quella maschera sorniona e un pò dandy di chi guarda le cose con distacco e superiorità, salvo poi rifilare da vigliacco un pacco clamoroso al giovane Faustino. Faustino che è sempre sotto i riflettori dall'inizio alla fine: una bella figura dall'aspetto da rocker, che trascina le sue giornate fra promesse, aspirazioni, vaghe illusioni di grandezza. Dicevo del suo aspetto davvero singolare, su cui risaltano la lunghissima chioma nera e gli enormi doposci di pelo bianco ai piedi. Faustino, testimone taciturno di tutti gli eventi del film, è impersonato da questo bizzarro esordiente di nome Antimo Merolillo, uno di quei volti che non si dimenticano facilmente e che sembra fatto apposta per questo ruolo (ma proprio per questo faccio fatica ad immaginarlo alle prese con un altro personaggio: vedremo come se la caverà alla seconda prova...). Il film si divide piuttosto nettamente in due parti: l'incontro fra il professionista famoso venuto dal Nord e la scalcagnata banda di provincia del Sud, e poi il viaggio di Faustino verso la "mecca" dei suoi desideri, Milano, la città dove si dovrebbero realizzare i suoi sogni, e che invece si rivelerà la madre di tutte le promesse disattese. Eppure il buon Faustino, autentica anima pura d'artista, continua a sognare ad occhi aperti, mentre là fuori c'è un mondo di cinici, di cialtroni e di bugiardi. L'immagine di Faustino avvolto nella nebbia lombarda ha un sapore quasi felliniano, è indimenticabile. Personalmente ho trovato quest'ultima parte, nelle sue divagazioni oniriche, la piu' interessante e suggestiva, forse perchè un pò meno convenzionale della prima (benchè troppo breve, come testimonia quel finale decisamente frettoloso). Interessante e ben scritto quel microcosmo che popola la pensioncina, con le puttane che bisbigliano tra loro, con i due proprietari, uno viscido gestore e l'altro cuoco severo (impersonati da due veterani caratteristi -uno di teatro e l'altro di cinema- che fa piacere rivedere dopo anni di silenzio: Flavio Bonacci e Ugo Fangareggi). Peccato, come dicevo, che tutto ciò sia bruscamente interrotto da un'apparizione finale che pare troncare il film di netto coi titoli di coda. Soppesando quindi i pregi e i (pochi) difetti, direi che l'esame da regista di Bentivoglio è superato a pieni voti.
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