Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Lo sguardo di Pupi Avati sull'horror resta pressocchè immutato nel tempo. Certo, non siamo più nei gloriosi '70 dove c'era la possibilità, non di fare "altro", ma di fare di più. E certo non siamo in quella pianura angosciante, tetra e inquieta per sua natura che il regista ci aveva già reso magistralmente nei suoi precedenti excursos orrorifici. Ciò che non cambia è l'idea di Avati di cosa sia "nero". É un labirinto dell'anima, rappresentato benissimo visivamente dalla fatiscente casa pseudo-batesiana, intrica di cunicoli, sale vuote, stanze sovrapposte a stanze, scale a tortiglione e ascensori infernali. Chi se ne intende sa che l'architettura delle "case" nel cinema è sinonimo di "anima", soprattutto negli horror dove il tema-motivo della "casa infestata", della "casa degli orrori" è uno tra i più vecchi, archetipici, navigati e ancora oggi usatissimi del genere. Con il suo linguaggio atmosferico, Avati, chiaramente essendo in trasferta americana, non può italianizzare il film, indigenizzarlo. Non c'è la pianura, non ci sono le risaie, non c'è il Po, non c'è la nebbia, quella vera. E la casa degli orrori non è, diciamolo, il casolare inquietante perso in una campagna invernale, specialmente se ha le finestre che ridono. Ma il regista sa cosa fare della sua storia, fino ad un certo punto un po' troppo didascalica e inutile, e la rende "altra", estranea. Ce la allontana dalla nostra comue percezione. Inciampa in tutti i difetti di un'italiano quando lavora in America per un film italiano, ma il risultato è impressionantemente soddisfacente. Il terrore vero e proprio arriva solo nel secondo tempo, quando oltre all'incalzare della trama e del ritmo, iniziamo a vedere il non-visibile, ciò che prima avevamo solo ipotizzato. Arriva la vecchia assassina, che se non perturba eccessivamente, è sicuramente una presenza che Avati sa non banalizzare. Va detto che anche la sequenza iniziale, che vanta una pirandelliana Sidney Rome, grottescamente truccata, è giocata tutta sulla impalpabilità dell'azione, del tempo e dello spazio. Peccato solo per il parco attori. Se le caratterizzazioni sono apprezzabili, la Morante è sempre la stessa donna in crisi, nevrotica, e che sussurra quando parla. C'è Burt Young che sarebbe stato bello veder morire alla Martin Balsam in "Psycho", invece getta giusto il mazzo di fiori in macchina e non lo vediamo più. Il ritmo è quello che è, e non siamo di certo davanti alla celebre "Casa dalle Finestre che Ridono", e l'agnizione finale della colpevolezza e della pazzia della Morante sono appiccicate alla meno peggio, è vero, ma senza dar fastidio. É un film elegante che sa restituire all'horror atmosfere difficili oggi, o meglio, di difficile appetibilità. Chi scrive ama l'horror carnale, fisico, lo slesher gratuito, ma è uno che vorrebbe tanto tremare anche solo con una porta che si apre cigolando. E "Il Nascondiglio", in buona parte, ci riesce.
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