Regia di Roberto Faenza vedi scheda film
“Fatta l’Italia, dobbiamo farci gli affari nostri”, dice l’insopportabile ed arrogante patriarca dei nobili Uzeda, il principe Giacomo (uno straripante Lando Buzzanca da applausi, più avvoltoio crudele che merlo maschio). Forse sta qui il limite dell’ambiziosa trasposizione televisiva-cinematografica del capolavoro di De Roberto: l’eccessivo parallelismo tra realtà contemporanea e passato storico. Indubbi sono gli elementi analoghi tra i due periodi, ma non ci si può adagiare su una critica social-politica lasciando perdere non di rado il disegno della nobiltà siciliana post-borbonica e smarrita, dapprima, di fronte all’Unità d’Italia. L’ovvietà porta lo spettatore medio a paragonare la decadenza dell’ambiente e il tono della narrazione al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (ma soprattutto alla versione di Luchino Visconti, citato da Faenza), nonostante si raccontino eventi diversi attraverso dinamiche trasversalmente speculari (e la frase fondamentale, trita e ritrita, del capolavoro del Principe riecheggia ovunque nel film di Faenza: “Cambiare tutto perché niente cambi”).
Ora, il problema è questo: come si può aspirare ad affrescare un ritratto così torvo della (non) coscienza etica di un ceto (quello nobile e realista di matrice borbonica, appunto) con il linguaggio secco e necessariamente esplicito della televisione? O almeno, come fare ad esplicare al meglio il sottotesto parallelista se imprigionati nel modello televisivo, che per sua natura pretende chiarezza e semplicità (si pensi agli sceneggiati di Bolchi e Majano, ad esempio a Il Conte di Montecristo o a I Miserabili o finanche a E le stelle stanno a guardare, lineari e limpidi perché di scopo didattico). Faenza non ha un intento didattico, a differenza dei vari predecessori televisivi: vuole unire le esigenze di un pubblico famelico di intrighi e tradimenti (merce essenziale per la platea tubocatodica) e le pretese più ariose di chi ha amato il romanzo visceralmente. Il romanzo ha avuto una sua tempestosa esistenza e ha trovato pace solo in tempi recenti: troppo oltre il De Roberto per essere apprezzato al pari di un Manzoni o di un Verga, tantomeno di un Tomasi di Lampedusa.
Faenza, inoltre, pare non conoscere bene il mezzo televisivo: le due puntate che strutturano la versione estesa dell’opera sono eccessivamente simmetriche, e così la prima è caratterizzata assai dagli sviluppi familiari tra cacciate di casa e testamenti falsificati, la seconda si concentra piuttosto sull’aspetto politico della storia, certamente non dimenticando di continuare il racconto familiare. E se il filone famigliare è tutto sommato convenzionale nel suo districarsi tra incomprensioni e infedeltà nella sfarzosa casa dispersa nel verde siciliano (con lo straziante capitolo, un po’ sacrificato, della sorella del Principe Uzeda che partorisce un piccolo morto messo poi in un raccapricciante barattolo – senza dimenticare l’episodio più struggente dell’intero film, ossia il suicidio del povero Giovannino, a cui è stato negato il matrimonio, perché secondogenito, con la giovane Teresina Uzeda, andata in sposa poi all’orribile primogenito), quello politico risente di pedanteria filologica e al contempo di corrispondenza eccessiva con la contemporaneità (i concetti inutili e ormai privi di senso di destra e sinistra, i seggi parlamentari ereditari, il suffragio universale, socialisti contro monarchici, terra e padroni e via dicendo, fino alla frase agghiacciante pronunciata da Giacomo: “Libertà è una parola che non significa niente ma accontenta tutti”).
La cosa deludente de I Viceré non risiede tanto nella sua organizzazione artistica o nel messaggio che vorrebbe trasmettere, quando nella poca passione che non esplode come dovrebbe: l’impianto scenografico, pur splendido, sembra soffocare l’azione cerebrale dell’opera, e ci si chiede se la vera ragione dell’operazione abiti nell’obiettivo di Faenza (rispolverare un romanzone mai diventato classico, provare nell’intento a cui aveva rinunciato Visconti, parallelizzare il presente al passato) o nelle necessità della committenza, ossia della RAI (vista l’aria che tira, un bello sceneggiato storico in costume va che è una bellezza, tra corna ed amanti, vecchie brontolone e giovani focosi!). Il problema sta, appunto, nel manico: nella sceneggiatura didascalica e non sempre adeguata. Tuttavia, I Viceré non è da buttare e parzialmente non è da ritenersi un film (o una fiction, fate voi) mediocre. I meriti maggiori, oltre nella formalità dell’opera (costumi, scene, fotografia) stanno in alcune scelte ben oculate nel cast, dal già citato (e rinato) Buzzanca ad una recuperata e fiera Lucia Bosè, passando per il maggiordomo di Biagio Pelligra, Vito e Giselda Volodi, mentre risultano un po’ sacrificati l’altrove (in teatro, non con Tinto Brass) potente Franco Branciaroli e non perfettamente all’altezza Alessandro Preziosi, un Consalvo un tantino troppo spolpato della sua dimensione piccolo-epica.
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