Regia di Gregory Hoblit vedi scheda film
A undici anni di distanza dal suo riuscito esordio su grande schermo con “Schegge di paura” Gregory Hoblit si confronta ancora con un giallo processuale, impostato però (e qui sta la curiosa ed all'inizio piacevole novità rispetto al suo primo film ma soprattutto rispetto alla stragrande maggioranza dei prodotti simili in voga a Hollywood) come una puntata del Tenente Colombo (il colpevole si conosce fin dall’inizio, l’interesse è su come verrà incastrato). Se nel film con Richard Gere, il protagonista era un avvocato di successo piuttosto narcisista, amante della ribalta e sicuro di sé, alle prese con un giovane del coro della chiesa accusato da prove schiaccianti dell’omicidio di un arcivescovo, in questo film troviamo un giovane procuratore rampante dal curriculum invidiabile (ha ottenuto il 97% di sentenze di condanna), piuttosto spocchioso e sfacciato, dall’atteggiamento disinvolto ed arrogante, pronto, come il Tom Cruise de “Il socio”, al grande salto in uno studio legale di rinomata fama le cui porte gli sono state aperte grazie ad una sua condotta non proprio corretta né professionale. Prima del suo nuovo incarico però accetta di seguire un’ultima pratica per il suo vecchio studio: un uomo reo confesso dell’omicidio della moglie. Sembra tutto facile ed il suo approccio evidenzia una certa sufficienza e sottovalutazione: ovvio che la matassa non sarà così facile da sbrogliare a partire dal fatto che non si trova l’arma del delitto. In questo modo molte delle certezze del giovane e supponente procuratore andranno a farsi benedire. Va detto subito che il soggetto è forzato: come al riguardo ha ben scritto il Morandini il film “ha soltanto una palese smagliatura, ricucita col filo bianco, nel detective che arriva nella villa del delitto: è lui l'amante della vittima che raccoglie la confessione del colpevole. È improbabile che abbia avuto per mesi un'appassionata relazione con una signora sposata ignorandone nome e indirizzo. E come faceva Crawford a sapere che sarebbe intervenuto proprio lui?” Il personaggio del poliziotto innamorato che fa di tutto, anche ciò che va contro la legge, pur di ottenere la condanna dell’imputato, è il vero punto debole del film, con momenti plateali (l’aggressione in tribunale) o superflui (il suicidio). Così come il personaggio di Nikki, il nuovo capo del protagonista, interpretato da Rosamund Pike, e la conseguente relazione sentimentale che nasce tra i due con tanto di imbarazzante pranzo del Ringraziamento mi sembrano piazzati nella storia un po’ a casaccio. Altro elemento che non mi convince del tutto è il modo un pò sbrigativo e superficiale con cui il giovane protagonista risolve il caso. Ma del resto bisognava pur trovare qualcosa di ingegnoso per assicurare lo scaltro assassino alla giustizia. Al di là di questi evidenti limiti (mi rendo conto che le mie sono sottigliezze e pignolerie fin eccessive, anche se gli episodi del tenente Colombo erano strutturati in modo più intelligente e sofisticato, senza artefatte coincidenze o banali approssimazioni), “Il caso Thomas Crawford” scivola via piuttosto spedito grazie ad una regia diligente, elegante e puntuale ma soprattutto grazie al serrato e piacevole confronto dialettico tra il bravo ed intenso Ryan Gosling, uno dei migliori attori della sua generazione ed un compiaciuto eppur in forma Anthony Hopkins che in ruoli del genere sembra sguazzarci divertito e che qui può pure guidare una Porsche nuova fiammante (certe telefonate, tra l’ironico e il sadico, che fa al suo avversario non possono non far venire in mente il suo più celebre killer Hannibal Lecter ed assai divertente è l’udienza in tribunale in cui rinuncia a fare obiezioni, rivelando, con furbo calcolo, una scarsa e goffa dimestichezza con i formalismi legali). Peraltro il confronto tra due diverse generazioni di interpreti è un altro punto di contatto con “Schegge di paura” e, in entrambi i casi, a mio giudizio ne esce vincitore il più giovane. Curioso poi constatare come Gosling in “Formula per un delitto” si ingegnava con un amico proprio per commettere il delitto perfetto. Apprezzabile comunque che la presa di coscienza del giovane protagonista, dopo lo smacco subito in tribunale quando il suo avversario ottiene il proscioglimento per mancanza di prove a suo carico, non assuma toni troppo moralistici e ridondanti. Per chi ama il genere un prodotto di stampo classico che garantisce un discreto e godibile intrattenimento. Scritto da Daniel Pyne (“Uno sconosciuto alla porta”, “Ogni maledetta domenica”, “Al vertice della tensione” e “The Manchurian candidate” i suoi titoli più celebri) e Glenn Gers. Sul fatto che la produzione italiana abbia cambiato il nome del protagonista da Ted a Thomas per creare facili assonanze con il più celebre “caso Thomas Crown” non ci sono parole. Peraltro mi pare un espediente più infantile che furbo: credo infatti che chi conosce l’opera di Jewison non sia stato così sprovveduto da farsi infinocchiare da giochetti così cretini, chi invece non lo conosce non si sarà posto minimamente il problema. Dalla Eagle Pictures bisogna sempre aspettarsi il peggio.
Voto: 6 e mezzo.
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