Regia di James Mangold vedi scheda film
Il quotato James Mangold, che qualche anno dopo dirigerà l'ottimo Le Mans '66, riporta al cinema l'omonimo caposaldo girato nel 1957 da Delmer Daves, ispirato da un racconto del 1953 dello specialista Elmore Leonard, a sua volta debitore di Ombre Rosse.
Il film si poggia su un soggetto piuttosto semplice, non a caso il racconto di Leonard è di appena 19 pagine, ed è da ricondursi nell'alveo di quei western point to point che vedono una squadra di uomini di legge trasportare, da un punto a un altro, un terribile bandito affinché venga processato.
Michael Brandt e Derek Haas, sceneggiatori de Invincible e di 2 Fast 2 Furious, perferzionano lo script del film di Daves, pur non liberandolo da alcune incongruenze di fondo, a partire dalla facilità con cui viene arrestato il bandito. La parte migliore del loro lavoro è da individuarsi non tanto nella costruzione dell'intreccio (costituito da una serie di agguati, tentativi di fuga e di successive ricatture), bensì nella caratterizzazione dei due protagonisti. Viene infatti a maturare una sorta di bizzarra sindrome di Stoccolma, questa volta però invertita nel senso che il maligno verrà attratto dai modi del buono. L'antagonista, un ottimo Russel Crowe, vede infatti nel protagonista, un meno ispirato Christian Bale, l'uomo tutto di un pezzo che lui, probabilmente, sarebbe voluto essere se solo avesse avuto un'infanzia più morbida (non a caso si immedesima di continuo con lui, per dirgli quello che farebbe al suo posto oppure immagina cosa potrebbe fare con i soldi incassati per suo indiretto tramite). Letale e veloce come un cobra (fa secchi due uomini della spedizione, ma solo perché lo avevano deriso), Ben Wade (questo il nome del personaggio) non è un comune bandito. Ha estro artistico (che si esprime nella forma del disegno), sprezzo del pericolo, sangue freddo, capacità di improvvisazione (utilizza una mandria di vacche per arrestare una carovana in fuga che i suoi uomini non riescono ad assaltare), abilità oratoria e, soprattutto, conosce la bibba e legge libri (motivo per cui beffeggia alcuni suoi accompagnatori che non li considerano utili per campare). Nonostante questo conduce una vita da fuggiasco, bramando una donna che non lo ama al punto da seguirlo e un figlio che non ha mai avuto (per questo nutrirà una forte simpatia, peraltro ricambiata, per il figlio dell'allevatore che lo tiene sotto tiro e che, alla fine, imparerà la lezione sulla capacità dell'improvvisazione mutuandone la manovra). Abilità e atteggiamento psicologico anomali, così come il vezzo di aver applicato un crocifisso al calcio della pistola, che lo rendono un personaggio capace di farsi ricordare.
Per converso il protagonista è un timoroso, ha una gamba invalidata da una ferita di guerra (subita mentre si stava ritirando) e viene visto dal figlio come un perdente e remissivo. I problemi economici e i debiti che lo attanagliano e minacciano di fargli perdere la proprietà terriera lo portano a cercare un riscatto. Abile tiratore, decide di candidarsi quale volontario per tradurre il più pericoloso bandito di zona alla forca. Tra i due nasce un rapporto di reciproca stima, ma non di comprensione. Uno apprezza l'audacia e la freddezza del bandito, l'altro lo spirito di perseveranza e la progressiva accettazione della morte in difesa di un ideale che non può essere valutato dal prezzo del miglior offerente. In realtà, l'allevatore sta solo cercando di riscattarsi da un passato da codardo, così da esser visto quale eroe dal figlio e modello di riferimento per la vita futura. Ben Wade lo capisce e per questo, guardando il male che si è lasciato alle spalle e quel crocifisso che gli brilla sul calcio della pistola, decide di assecondarlo, specie quando l'allevatore resterà l'unico disposto a compiere la missione. Gli uomini di Wade, difatti, hanno accerchiato i carcerieri, togliendo loro ogni via di fuga e con essa ogni iniziativa di prosecuzione (codardissimi lo sceriffo e i suoi aiutanti che decidono di arrendersi invece di assolvere al loro compito). L'allevatore riuscirà a compiere l'impresa, ma lo farà solo perché Wade valuterà giusto e meritevole di rispetto l'avversario, finendo così per aiutarlo (ricorda un po' il finale di The Wrestler). Il finale, tragico, segna comunque il riscatto, a loro modo diverso, per entrambi i personaggi. L'allevatore diventa un eroe agli occhi del figlio ma anche dei testimoni, l'altro una sorta di peccatore, alla stregua di San Paolo, folgorato sulla via di Damasco da una benedizione divina.
Western dunque allegorico, intriso di valori tipici della tradizione western americana (importanza della famiglia, attaccamento alla legge e redenzione finale), ma girato con gli stilemi continentali. Mangold mette fin dall'inizio l'azione e scandisce apprezzabile ritmo, evitando di optare per un graduale registro crescente così come insegnato dalla tradizione western hollywoodiana. Le inquadrature vengono scelte in modo da vivacizzare gli inseguimenti, con prospettive dalla soggettiva della diligenza e carrellate calibrate. Non mancano esplosioni e sparatorie. Tra queste ultime è da segnalare un confronto nel buio pesto (bella la fotografia di Papamicheal che, per il resto, ricorre all'effetto invecchiamento con luci soffuse tendenti all'arancione) con le fiammate dei fucili che mostrano l'identità degli aggressori: apache, indiavolati per aver subito l'invasione di un loro territorio.
Bella la musica di Marco Beltrami poi inserita da Mangini nel suo documentario La Voce del West. Un buon western di intrattenimento da vedere però quale chiave metaforica e dunque non fedele ricostruzione dell'epopea western (il finale, altrimenti, diventa inverosimile).
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