Regia di James Mangold vedi scheda film
Entrati ormai da tempo (c’è una data: Gli spietati, 1992; dopo di esso non c’è, forse, altro western possibile) nell’epoca autoreferenziale del post-western (anche un gran film come Terra di confine di Costner si inserisce inevitabilmente nel filone), non dobbiamo pretendere più di tanto dal genere. Qualche guizzo ogni tanto lo si percepisce (il citato Costner, Le tre sepolture, Jesse James, Appaloosa), ma niente di nuovo sotto il sole sudato del sud. Non è esente il remake di un classico del curioso ed abile Delmer Daves (uno che passava da Yuma a Scandalo al sole): lo Yuma moderno, pur nella sua pulizia stilistica e nella buona fattura, non ha in realtà un granché da dire. È, appunto, autoreferenziale. Non c’è neanche uno spiccato gusto per la citazione (ormai il patrimonio di Leone è saccheggiatissimo – si pensi a Tarantino – al punto che “roba sua” è diventata “roba di/per tutti”) che appaga, diciamola tutta, solo i cinefili (doppiamente autoreferenziali).
C’è solo questo esercizio di stile (e di recitazione: Bale e Crowe non danno il massimo perché usano lo spirito “vacanziero” dei b-western dell’epoca – in fondo lo Yuma moderno è un b-movie, sì omaggiante ma che denuncia una mancanza di idee abbastanza palese): fino a che punto si può ammirare la professionalità di un regista che sa dove mettere la mdp (più che altro sa cosa vuole vedere il pubblico: non solo quei magnifici cieli di un azzurro profondo in cui immergersi, ma anche un po’ di sangue – senza esagerare – e le cosiddette scene “mozzafiato”, lo spettacolo delle sparatorie e degli attacchi a sorpresa), la diligenza di un mestierante, la puntualità dei tecnici? Resta il dubbio (nello spettatore critico) se Yuma sia un’operazione commerciale (c’è ancora un pubblico per il western?), un tentativo di riesumazione (stiamo pur sempre parlando di Western, mica pizza e fichi) o un divertissement. Sì, realizzato bene, per carità. E poi?
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