Regia di Mikael Håfström vedi scheda film
Pellicola di una densità avvolgente e ben articolata, è un’altra bella storia di fantasmi e di case (stanze) maledette, che qui assume però la dimensione magmatica di un percorso tutto interiore, che utilizza la metafora per indagare nel proprio subconscio e tirar fuori tutte le paurose insicurezze di un incubo che non può avere fine.
Finalmente un buon horror come da qualche tempo non ci era dato di vedere. Ottimo segnale questo, soprattutto se si considera che il risultato è frutto dell’opera di un regista che, dopo un esordio discutibile e controverso, ma che poteva lasciar intravedere qualche positiva speranza, con il suo approdo in America sembrava malinconicamente ripiegato verso una sconcertante mediocrità. Qui è sicuramente stato aiutato dal “riferimento” ispirativo del racconto di Stephen King che, seppure ampiamente “ristrutturato”, fornisce comunque un’ottima materia prima su cui strutturare con intelligente perspicacia, una interessante e inquietante intelaiatura da fortissimi brividi nella schiena e imprevisti sobbalzi sulla poltrona, pur in mancanza (fortunatamente direi) di forzature e di “eccessi” estremizzati quasi sempre epidermicamente fini a se stessi che spesso inquinano e omogeneizzano il genere in questi anni davvero poco creativo e ripetitivamente pedissequo. Una volta di più è dimostrato in questa circostanza, che si può far paura anche senza bisogno di ricorrere alla trucidità dell’effettistica più vieta, e che anzi se il risultato è ottenuto grazie a una sapiente costruzione delle atmosfere, il tutto risulta ancor più destabilizzante e angosciante, per la capacità di coinvolgerci più profondamente all’interno dell’incubo, insieme a tutte le nostre personali incertezze e affinità anche identificative. Il soggetto (e il procedimento operativo) è così Kinghiano nell’assunto, che più di così non sarebbe possibile (per altro nemmeno troppo “innovativo” per ciò che intende rappresentare) eppure la tensione anche nei momenti in cui si applicano soluzioni ampiamente utilizzate in precedenza (e che è persino possibile intuire) è tangibilmente di quelle da tagliarsi col coltello, come si sul dire, per la densità avvolgente che ti attanaglia con quella speciale sensazione ansiogena che ti accelera progressivamente i battiti del cuore fino a crearti quasi un sottile, impalpabile disagio fisico che si avvicina molto al malessere dell’anima. Ancora una storia di “fantasmi” e di case (stanze) maledette, che qui assume però la dimensione magmatica di un percorso tutto interiore, che utilizza la “metafora” per indagare nel proprio subconscio e tirar fuori tutte le paurose insicurezze di un incubo che non può avere fine. E’ in effetti la storia della mancata accettazione di una perdita irreparabile, il doloroso cammino per la elaborazione di un tragico lutto (la morte della figlia inesorabilmente stroncata da un male incurabile) e il conseguente smarrito viaggio nello sbigottito orrore della privazione che non trova risposte consolatorie, né concede ipotesi di speranza per un possibile “altro” dopo la fine, che tenti per lo meno di dare un senso compiuto (accettabile) alla nostra vita terrena. Ecco che allora quella “stanza del male assoluto” al quattordicesimo piano di un nuovo, inquietante Overlock Hotel che ora si chiama Dolphin (non più confinato fra le solitudini nevose e inaccessibili quasi al di là dei confini del mondo, ma perfettamente integrato nel cuore pulsante e nevrotico di una metropoli come New York), diventa singolarmente la rappresentazione dei tormentosi interrogativi della mente allucinata del protagonista che non sa rassegnarsi e vorrebbe avere delle risposte, incapace come è di anestetizzare il proprio dolore. I personaggi che si affollano, gli ectoplasmi che lo perseguitano, che lo rincorrono che gli parlano e che persino lo rispecchiano (eccellente la lunga sequenza alla finestra col suo doppio di fronte, non del tutto originale ma costruita con un invidiabile senso della tensione) sono semplicemente la materializzazione delle sue angosce, del senso di colpevole inadeguatezza che gli fa assumere il peso di una responsabilità che non ha, che lo costringe a “inventarsi” una tragica modalità espiativa per tentare di farsi una ragione di ciò che non comprende né vuole capire, e il prezzo da pagare per redimersi davvero dal “reato di impotenza” che lo ha costretto a privarsi di un bene così prezioso che non gli consente di ricostruire e mantenere attiva la sua esistenza. Lo spettacolo oltre che coinvolgente, è anche visionariamente affascinante, quasi sempre genuinamente spaventoso con i sui frequenti improvvisi “scarti” che ti costringono a naufragare insieme al protagonista, fra gli abissi turbinosi di un mare tempestoso, ti spingono a inerpicarti con lui nei meandri contorti dei condotti dell’aria che sovrastano l’edificio, o sul cornicione senza finestre (simbolica evidenziazione dell’impossibilità di fuggire davvero o di trovare semplicemente uno sbocco decente o persino un piccolo pertugio, per sottrarsi dalla propria devastante disperazione), fra il via vai confuso dei ricordi carichi di “attese” e di impossibili speranze o di frustranti desideri, fino ad essere braccati, inseguiti e ossessionati come lui dai tanti (troppi) fantasmi interiori che lo perseguitano e ai quali è a volte tentato di arrendersi, perché è più facile (semplice) soccombere che uscirne vivi. Si appoggia poi su una sceneggiatura tutt’altro che banale (né supponente) e utilizza il contributo introspettivo, spaventato e commosso, tragico e irrequieto, spavaldo e rassegnato, inerte e combattivo, di un bravissimo John Cusack che diventa veramente la credibilissima anima pulsante di questa trasferta nell’inferno del proprio smarrimento. E’ insomma una confezione di pregevole qualità che utilizza ottime materie prime e che si fa apprezzare con interesse e partecipazione emotiva quasi ininterrottamente per tutta la sua durata. Come spesso accade in questo tipo di pellicole, è semmai il finale (ancora una volta certamente “aperto” come si conviene, ma indubbiamente un po’ troppo accomodante e sbrigativo) a lasciare qualche incertezza di troppo che potrebbe persino identificarsi con una sotterranea latente delusione (si sarebbe potuto sperare in qualcosa di più problematico e di meno conciliante, pur nella sua ambigua sospensione che sembrerebbe voler rimettere tutto in discussione). In questo caso però, almeno per ciò che stimo vedendo in sala qui in Italia, probabilmente non possiamo attribuire al regista la responsabilità di questa un pò posticcia conclusione, in quanto sembra che si tratti di un “ripensamento” produttivo (che a mio avviso altera un po’ l’equilibrio) rispetto alla visione originaria dell’autore che sembra dovesse prevedere qualcosa di più spiazzante e in maggior sintonia con tutto ciò che era stato rappresentato in precedenza. Stando a ciò che scrive Pier Maria Bocchi nella sua critica sull’ultimo numero di Film tv, fortunatamente però non si è persa completamente la traccia di questa “alternativa” che era poi il primario impianto narrativo, essendo inclusa – e quindi disponibile - nel dvd “director’s cut già presente sul mercato americano (“una conclusione completamente diversa e di gran lunga migliore”, come chiosa il recensore). C’è da augurarsi quindi che al momento dell’uscita della pellicola sul mercato nostrano dell’home video, sia disponibile anche da noi l’accesso alla visione integrale del “pensiero” originario di Mikael Häfström… anche se ahimè, la cosa non è poi cosi conseguente e scontata come dovrebbe essere e qualche ulteriore “sorpresa” in negativo su questo fronte non è completamente da scartare (anzi!!!).
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