Regia di Russell Mulcahy vedi scheda film
Mi imbatto in questo film in uno di quei giorni da buttare. È la fine di settembre 2011. Ho un forte mal di testa, non sono andato al lavoro, mi sento depresso e, in attesa che il triptano mantenga quello che promette, vago tra i canali del mio LCD. Milla Jovovich scuote per un attimo il mio torpore, e resisto alla tentazione di scivolare oltre, verso altri scarti di noia, canali di televendite, avanzi di talk-show o, peggio, risse più o meno rispettabili di politici in TV. Rispetto a quest'ultimo tipo di spettacolo la rappresentazione di zombie affamati e disperatamente compulsivi ha quantomeno il vantaggio di conservare la propria illusione di onestà, probabilmente il solo valore intellettuale di cui uno zombie può disporre. Inoltre mi saltano alla mente alcune immagini di ‘Essi vivono’ di Carpenter in cui gli alieni invadono la terra sotto spoglie umane, seminando il mondo di messaggi subliminali in cui la superficie delle cose è solo la vernice che se scrostata appena un po’ rivela l’essenza del mostro che nasconde. E se ‘Porta a porta’ fosse popolata da senatori e parlamentari che ripetono come automi lo stesso messaggio? Che Vespa ne sia il non troppo riuscito ma efficace epigono? Che fosse proprio la ripetizione dello stesso copione (opposizione e governo) a rivelare il sospetto di un mondo ipnagogicamente anestetizzazto da una intelligenza aliena? Purtroppo (o per fortuna) sono troppo alfabetizzato (o forse non abbastanza paranoico) da indulgere in analogie –seppure di seconda mano- tanto affascinanti quanto idiote. Eppure sento che non c’è nulla di idiota in questo film, se non ciò che rimane del pensiero di uno zombie, un pensiero che si arrende alla coscienza dell’individuo per tracimare in una im-morale collettiva, in cui è lecita solo la sopravivenza del virus che anima corpi come vestigia di una civiltà perduta. Della civiltà hanno perduto la parola, e tanto basta a regredirli allo stato di infanti tanto candidi nella loro innocenza quanto pericolosi. Bastano poche immagini e già sono catturato dal clima oscuro, metallico, viscerale, che fa il paio con la superficie azzurra in alto che sovrasta un deserto. In nome del mio passato di giocatore di playstation rivivo la sensazione del mio essere in trappola, una trappola dorata, al riparo dal vero orrore, quello che assalirebbe chi resta solo a combattere contro la propria nemesi, che essendo tale non ha proprio nessuna speranza di soccombere. Sulla scorta di ciò il film riesce perfino a rallegrarmi in quanto il mio stato depressivo sembra giovarsi di immagini che soddisfano il mio revanscismo con le pantofole ai piedi. Alice seppure mutata dalle sperimentazioni –e forse proprio per questo- non ha il minimo scossone dallo scoprirsi replicata, usata e poi gettata nelle fosse comuni in perfetto stile nazifascista. Bisogna fare da madre a sé stessi come Alice fa con il proprio doppio, prendersi in braccio, cullarsi, raccontarsi storie che fanno del reale una confezione regalo alquanto ingannevole, ma pure necessaria se si tratta di affrontare una guerra senza senso, dove il solo senso possibile è soccombere: in questo senso giocare ad un videogame può essere un discreto unguento balsamico, a patto di tornare “a riveder le stelle”. Il compagno di Alice –Carlos- si offre con sollievo al sacrificio estremo essendo stato morso, e nell’accensione dell’ultima sigaretta si distende nell’ultima boccata, ora che l’esercito di zombie è solo ad una tirata di tabacco. La morte può divenire un piacere estremo, anzi, l’estremo piacere dove la vita divenga più impossibile di quanto non sia già. Se per l’umano morire diviene una specie di scelta elettiva, un angiporto, un vicolo cieco-accecato, un arrendersi alla vanità della ricerca di un senso, per Alice si tratta all’opposto di replicarsi, di farsi una-cento-centomila o nessuna, e con questo arrendersi all’evidenza che la morte non avrà dominio su di sé, seppure con le stimmate dell’ironia. Diviene madre di sé stessa, e in questo trova un ulteriore scommessa di vita, componendo per sé una analogia estrema e grottesca -alla pari delle proprie epigoni- tra lo spolverare un comò e sterminare zombie con un fucile a pompa. Tra le innumerevoli eroine femminili che popolano ormai da decenni il nostro immaginario, Alice credo si sia ricavata un posto elettivo, insieme a Ripley (Alien), Vienna (Johnny Guitar), Black Mamba (Kill Bill), e chissà quali altre (ma ce ne sono) che ora non ho proprio voglia di ricordare. Una donna sopravive all’uomo: sempre. Una donna è in grado nel momento peggiore di fare una torta per un nipote, sferruzzare, non restare davanti alla pagina bianca, deviare verso gli affetti, farsi ponte per l’altro, trovare nell’altro una aneroica ragione. Un uomo rimane a giocare a Playstation tutta la vita, febbrilmente sfrecciando per i corridoi digitali di un mondo immaginario alla ricerca di un nemico che alla fine riuscirà consolatoriamente a distruggere dopo essere morto centinaia di volte (i nostri doppi digitali deceduti sono in una fossa comune dietro il televisore), e in ultimo aggrapandosi all’IO sopravissuto che nel frattempo è diventato un po’ più isolato, dispettoso, sospettoso benchè vincitore. I cloni di Alice sono le vite che un giocatore ha a disposizione in un videogame, praticamente infinite. Sono la possibilità di giocare ancora, e ancora, se non fosse che si tratta di salvare la parte di sé fuori dal monitor, e che ha necessità di amare una persona vera, pur con tutte le indigeribilità del reale e le seduzioni di un mondo falso (o vero anch’esso?). Per una strana ironia sarà proprio il doppio di Alice (quale tra gli infiniti?) a vigilare, a salvarla nello scontro finale contro il nostro corpo digitale mutato e reso mostruoso dall’isolamento. C’è sempre una voce che ci chiama, che ci sveglia se ci dibattiamo in un incubo, ma una voce umana, che sia in grado di rispecchiare la nostra umanità, una voce che sta per la madre di noi stessi se non è un Altro a rappresentarla. È la voce via radio che cerca dal convoglio insistentemente, pervicacemente, ossessivamente altri esseri umani a cui aggrapparsi per vedere rassicurata nello sguardo dell’altro la propria umanità non ancora perduta. La Grande Madre –rinchiusa com’è nell’incubo del gioco e offrendosi liberamente a questo- non può che continuare la sua battaglia, facendo della propria famiglia l’esercito che affronterà nel prossimo episodio il picco fallico rappresentato dalla Umbrella Corporation. “Protezione e assalto” sembra essere la parola d’ordine di Alice, gettata in un mondo da cui è necessario risvegliarsi per poter tornare: ogni epoca ha il ‘paese delle meraviglie’ che si merita, e una Alice che -dopo averci condotto nell’incubo- ci tira fuori destandoci con la sua voce calda.
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