Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Forse il miglior film in assoluto di Stone, retorico e patriottico da morire ma intelligentissimo, incazzoso e giusto. Con un cast delle grandi occasioni, una fotografia superba e un montaggio da impazzire.
Ebbene, oggi per il nostro consueto, ci auguriamo, apprezzato appuntamento coi Racconti di Cinema, disamineremo JFK, sottotitolato, qui da noi, Un caso ancora aperto, opus mastodontico, spropositatamente lungo, fascinoso eppur forse irrisolto, non irrisorio, anzi, notevole ma non privo di notevoli pecche, firmato da Oliver Stone (Nixon - Gli intrighi del potere).
Pellicola, come appena dettovi, della durata assai considerevole, per l’esattezza constante di 189’, per quanto concernette o, se preferite, concernente, la versione per le sale cinematografiche, espansa addirittura a 206 minuti in director’s cut, quest’ultima disponibile esclusivamente in home video, tratta da un soggetto di Jim Garrison (il protagonista della vicenda narrataci, autore di Sulle tracce degli assassini) e di Jim Marrs, scrittore di Fuoco incrociato: Il complotto che ha ucciso Kennedy, sceneggiata, come consuetudine, dallo stesso Oliver Stone in collaborazione con Zachary Sklar, candidata a otto premi Oscar, fra cui quello, giustappunto, per il miglior adattamento, cioè per la migliore sceneggiatura non originale e per Miglior Film e Migliore Regia (Stone, quindi, non aggiudicandosi l’Academy Award, non raggiunse il terzetto di vittorie come director dopo il bis ottenuto per Platoon & Nato il quattro luglio), ne vinse solamente due, andati precisamente per la miglior fotografia, a cura di Robert Richardson (Casinò, Django Unchained), e per il miglior montaggio di Joe Hutshing e del nostro Pietro Scalia (Black Hawk Down).
Monumentale, impegnatissimo, adrenalinico e appassionante dal primo all’ultimo minuto, malgrado il suo taglio decisamente processuale apparentemente tedioso e sfiancante, finanche insistito compiaciutamente, non scevro altresì di forti cadute di tono non trascurabili e di momenti inevitabilmente prolissi e troppo didascalici, superflui e pedantemente cronachistici, JFK rimane, a prescindere dai suoi enunciativi e rimarchevoli difetti che, più avanti, maggiormente esporremo nei dettagli, a distanza di circa trent’anni dalla sua release, avvenuta a livello internazionale nel ’91, una pietra miliare del cosiddetto Cinema di denuncia e, a nostro avviso, una delle migliori opere di Oliver Stone. In quanto, a differenza di altre pellicole di Stone, probabilmente troppo pompose, filo patriottiche e scandalisticamente sensazionalistiche, pesantemente retoriche oltre la soglia dell’umana sopportabilità, sebbene qui la retorica, spesso e volentieri, parimenti esondi abbondantemente, non risulta mai veramente disturbante o stucchevole. In quanto, potremmo definire JFK una sorta di legal thriller del grande schermo, à la John Grisham in formato settima arte raffinata, sui generis d’alta scuola cineastica la cui forza emozionale consiste, principalmente, nell’essere volutamente enfatico, rabbiosamente declamatorio e polemicamente arrabbiato contro il sistema, non solo giudiziario, americano. Perciò, qui la proverbiale, spesso indigeribile retorica di Stone, ben s’appaia e non stona rispetto alla tematica da lui con cura delicata e tatto sofisticato eviscerata, maneggiata con sobrietà, perfettamente equilibrata rispetto alla potente, perfino struggente scabrosità dei fatti vergognosi da lui (d)enunciati a viva voce e con dura, corposa posizione ferrea, non rivelandosi eticamente falsa o moralistica.
Laddove, dapprima, Stone fu perennemente ambiguo e non pienamente credibile, qui invece trova la giusta amalgama, ben dosando e bilanciando i piani narrativi del racconto e della messa in scena, raccontandoci un sensazionale caso celeberrimo, ovvero quello riguardante l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy, episodio mai davvero, neppure a tutt’oggi, appurato nei suoi moventi e in merito ai veri colpevoli complottistici dell’assassinio avvenutogli e torbidamente perpetratogli, dirigendo un film ideologicamente sincero e rigorosamente severo, radicale ed estremo.
Trama: Dopo i bei titoli di testa in B/N, nell’incipit glaciale ma toccante, assistiamo a ciò che accade, immediatamente dopo l’omicidio ai danni di John F. Kennedy, in quel di New Orleans, ove agisce il puntuale procuratore distrettuale Jim Garrison (un Kevin Costner legnoso ma bravo, con la sordina e leggermente brizzolato per invecchiarlo un po’).
Poche ore susseguenti al fattaccio, viene incriminato e arrestato Lee Harvey Oswald (un magnifico, inquietante Gary Oldman), ritenuto il responsabile del reato in questione, cioè l’unico cecchino che, secondo l’FBI, avrebbe sparato a Kennedy, appostatosi a una finestra affacciante sulle strade del corteo di Dallas del 22 novembre del 1963.
Oswald è invero un facile capro espiatorio?
Dopo i primi, burocratici e inconcludenti interrogatori, il caso viene archiviato... soltanto tre anni dopo, Garrison tornerà, in maniera assai scomoda e molto rischiosa, sul “luogo del delitto”, intraprendendo una personalissima, forse giustissima, indagine in cerca della verità, un viaggio nelle tenebre giudiziarie che, in gran parte, però non completamente, smaschererà un complotto di proporzioni ciclopiche e aberranti, ovvero una macchinazione che coinvolse non solamente i poteri forti, gli occulti apparati del sistema e la CIA, bensì persone all’apparenza insospettabili che celarono tantissimi oscuri scheletri nell’armadio veramente raccapriccianti.
In un cast strepitosamente corale ed eterogeneo, infinito come non mai, in cui svetta, diciamo capeggia e primeggia la figura importante e statuaria, incorruttibile di Garrison/Costner, sfila egregiamente un impeccabile e straordinario, irripetibile, esaltante parterre di nomi hollywoodiani da leccarsi i baffi. Nomi altisonanti fra cui uno smagliante Joe Pesci col parrucchino, il quale gigioneggia a briglia sciolta da mattatore indomabile, un eccellente Tommy Lee Jones, nominato all’Oscar come miglior attore non protagonista, un mellifluo e impagabile Donald Sutherland in un ruolo luciferino ma cruciale, Vincent D’Onofrio, Michael Rooker (Henry: Pioggia di sangue, Cliffhanger), Pruitt Taylor Vince (Identity), Jack Lemmon e Walter Matthau, qui in nessuna scena assieme, a differenza della loro celeberrima strana coppia di “svitati imbranati”, John Candy, Sissy Spacek, Frank Whaley (accreditato solo nella versione estesa), Laurie Metcalf, Kevin Bacon, Tomas Milian e, fra gli altri, anche il vero Jim Garrison in un istantaneo ruolo da comparsa.
Fotografia eccelsa e musiche di John Williams per un film titanico, seppur a tratti soporifero, soprattutto nella parte centrale che assomiglia, tranne nel segmento finale, a un giallo-detection ove Garrison, in stile ante litteram alla Eliot Ness di The Untouchables, più che apparirci come un procuratore, pare un leguleio con l’anima pura dell’investigatore privato inarrendevole e dalla stoica, coriacea morale integerrima da indagatore dei tetri e lerci imbrogli di un viscido e capzioso sistema intero che, per ammazzare Kennedy, citando testualmente le lapidarie ed emblematiche frasi pronunciategli dal messianico uomo “deus ex machina” incarnato da Sutherland, ovvero il personaggio innominato, denominato Mister X, agì a compartimenti stagni.
JFK è uno dei migliori film di Oliver Stone perché, a dispetto delle sdolcinate e forse non riuscite parentesi intimistiche legate ai duetti e ai litigi furiosi eppur amorevoli, fra Garrison/Costner e sua moglie Liz/Spacek, ruffiani e troppo accondiscendenti nei riguardi dell’ipocrita, conservatrice etica domestico-famigliare, nonostante non poco inceda ad elevare Kennedy a santino agiografico, descrivendocelo infatti unicamente come un rivoluzionario paladino pacifista e dedito ai diritti dei neri, malgrado il suo impianto prettamente documentaristico, come da noi evidenziato all’inizio, è teso e incalzante, sostenuto robustamente da una mano registica inappuntabile che sa donarvi grintoso ritmo indiscutibile.
di Stefano Falotico
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