Regia di Robert Redford vedi scheda film
Ci voleva Redford, icona di un cinema liberal che pur non rinunciando all’intrattenimento si concede spesso all’analisi sociale ed alla denuncia del potere sotto tutte le sue forme, per organizzare una sorta di dialogo a quattro voci sui massimi sistemi americani, la politica e l’informazione, che diventa anche lo spunto per una riflessione sui miti fondanti della nazione e su cosa vuol dire essere americano, alla luce delle scelte dell’attuale governo statunitense. Insomma un sacco di carne al fuoco, e non solo anche il rischio di diventare retorico o ancora peggio pesante dal , per quel modo di mettere in scena i protagonisti ( il film si svolge all’interno di uno spazio circoscritto e ci mostra le due coppie di interlocutori seduti uno di fronte all’altro, separati da una scrivania che diventa una sorta di spartiacque culturale e generazionale ed anche, quando Tom Cruise la oltrepassa, il simulacro di una diversità che non è mai esistita), come fossero in una specie di confessionale, in cui, lontano dall’immagine pubblica o istituzionale, senza la divisione tra alunno e professore si affrontano alla pari, senza i vantaggi dei rispettivi ruoli e con a disposizione un corrispettivo che diventa anche un contraltare sulla propria situazione personale. Ed invece avvalendosi di un cast di prime donne assolutamente votate alla causa Redford riesce a tracciare un punto di situazione sullo “Stato dell’Unione” da far rabbrividire: attraverso la figura del senatore repubblicano, che ha la risata contaggiosa ed i modi convincenti del redivivo Cruise, qui alle prese con un ruolo che lo mette in discussione non solo sul piano artistico ma anche personale (molti lo hanno accusato di essere l’ottimo venditore del progetto Scientology), ci dice come sia caduta in basso la politica americana, eternamente aggrappata al prossimo conflitto di civiltà per rimediare a scelte operate sulla base del tornaconto personale o per emotività culturale (“mi sono stancato di prenderle” dice il politico in un momento di sincerità, per spiegare le ragioni della nuova strategia militare), con quello della giornalista (Meryl Streep) che l’intervista, una donna senza qualità e dalla morale assai incerta, il simbolo di una stampa assoldata al servizio del miglior offerente (in questo caso i Repubblicani), e promulgatrice di una verità al quale per prima non crede. A riequilibrare le sorti di una situazione senza uscita ci pensa l’accorato appello del vecchio professore, con il regista per la prima volta in una parte che sembra quasi una laurea honoris causa, impegnato a risvegliare, sull’ esempio dei due studenti che hanno scelto il rischio della guerra ( ed il film ci tiene a precisare che non appartengono alla classe dominante ma a quelle minoranze che di fatto pagano il prezzo più pesante, anche in termini di vite umane dell’insensatezza dominante) al disimpegno qualunquista, arruolandosi nell’esercito impegnato in una guerra (afghana) che sembra la rivisitazione più crudel del deserto dei Tartari, con un nemico che non si vede quasi mai e che ad un certo punto sembra non esistere (e forse è così),e che il film ci mostra in un eroica quanto comovente scena finale, gli ideali dello svogliato studente reso apatico dalla constatazione della banalità del male ed avviato, come la maggior parte dell’umanità ad una esistenza di pura, (anche se nel caso del personaggio in questione si presuppone ricca di soddisfazioni materiali) di pura sopravvivenza . Certo non siamo di fronte ad un capolavoro ed in fondo il film non ci dice nulla di ciò che non sapevamo (ma d’altronde la storia continua a dirci le stesse cose), ma il punto non è questo: a Redford non interessa spettacolarizzare la forma ne tantomeno confezionare il contenuto con artifici che non gli appartengono: per far questo avrebbe potuto assoldare un regista all’ultima moda od uno dei tanti venditori di fumo che tanto successo riscuotono tra la critica oltranzista. Ed invece quello che gli preme è mettere la sua firma ed ancor più la sua faccia sul manifesto di un dissenso che deve diventare una volta per tutte il monito per non perdere più tempo ( i personaggi devono esporre le loro teorie in fretta, perchè il termpo che li riporterà ai rispettivi impegni sta per scadere) ed iniziare a fare qualcosa per cambiare il corso della storia, per evitare le conseguenze di un Armageddeon senza ritorno, evitando di aspettare che lo faccia qualcun altro ma prendendosi fino in fondo le proprie responsabilità di uomo e di cittadino americano.
Una nuova giovinezza
Leoni per Agnelli di Robert Redford (che si ricollega idealmente e quasi chiude il cerchio con il Clint Eastwood di Million Dollar Baby ovvero il rammarico di un passaggio di consegne impossibile, di una incomunicabilità generazionale definitiva nonostante le indubbie affinità) delinea una tendenza nel cinema americano che prendendo spunto dagli avvenimenti bellici di fine secolo, ripropone sulle basi di un realismo nudo e crudo, spesso traumantico per un paese che più di tutti sta pagando in termini di vite umane lo sforzo bellico messo in atto, un modello di giovinezza intesa non solo come età anagrafica e di iniziazione alla vita ma come contenitore di quegli ideali di verità e giustizia che sono stati alla base della nascita della giovane democrazia d’oltreoceano e che hanno fatto sognare a colpi di peace and love and rock and roll (Across the universe) buona parte di quei registi che ora la raccontano sullo schermo. Che sia invocata come un sogno riparatore ad un vita sacrificata alla conoscenza (A youth without a youth) o presa a modello come ritorno ad uno stato dell’eden dove non c’è spazio per l’ipocrisia dei valori famigliari (Into the wild) o di quelli istituzionali (leoni per agnelli) questo stato della vita viene sempre definito in analogia (The flag of our father) o in contrapposizione a quella dei Padri, stastica, chiusa su se stessa, incapace di capire, corrotta e corrutrice perché non riesce a salvare i propri figli ma anzi li spinge per troppo zelo sull’orlo del precipizio (Nella valle di Elah). Èd è un processo di identificazione transgenerazionale che accomuna indipendentemente dall’età (ancora una volta Coppola che torna a filmare con la voglia di un ragazzino) o dalla cultura (il bambino afghano dell’ultimo film di Foster), nella consapevolezza che solo questo stato dell’anima ci puo autorizzare a pensare ad un mondo migliore.
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